L’Induismo come limite geopolitico dell’India

Induismo: Shiva, divinità della religione induista
Nell’ultimo periodo analisti e politici di tutto il mondo hanno iniziato a porsi una domanda: “la crescita indiana preannuncia la nascita di una nuova superpotenza?”. Tale interrogativo sorge per molti spontaneo, considerati alcuni importanti indicatori: crescita demografica, economica, tecnologica e militare.
Oltre a questo, viene giustamente presa in esame anche la collocazione strategica dell’India, sia da un punto di vista geografico (una penisola al centro dell’oceano indiano) sia di alleanze.
Dati tali elementi, per molti analisti la previsione è conclusa. La domanda viene dunque invertita in forma retorica: “come può non essere l’India la superpotenza del futuro?”.
L’ipotesi che qui sosteniamo è che il più grande ostacolo derivi dalla sua stessa religione. Che l’induismo abbia reso il popolo indiano totalmente immobile e restio al cambiamento. Incapace di trasformare sé stesso e il mondo, di sfruttare il contesto circostante, assuefatto dall’ebrezza dell’immaginazione e così, incapace di innovazione.
Per questo, a nostro avviso, il tentativo del primo ministro Modi di far diventare l’India una superpotenza, partendo dall’imposizione di un’identità nazionale fondata sulla religione induista, è progetto destinato a fallire.
L’India non è mai stato un Paese che ha fatto la storia ma l’ha sempre subita. I grandi progressi nei campi tecnologico-industriali sono stati quasi sempre importati (anche se spesso ottimamente applicati). Pur avendo eccellenze, essa deve fare i conti con più di un miliardo di abitanti che vivono pressappoco come i loro avi di qualche secolo fa. Estremamente restii al cambiamento, non per indole ma per cultura. O meglio, per una cultura così tanto radicata e immutata (da millenni) che ha trasformato un aspetto sociale in un’indole personale.

A riprova di ciò, basti pensare al perpetuarsi della gerarchia sociale in caste (nonostante siano state formalmente abolite nel 1947) o all’enorme opposizione ad una riforma agraria che cerca di superare un testo redatto più di mezzo secolo fa (l’Essential Commodities Act, una delle norme che si intendeva riformare, risale al 1955) e che le proteste dei contadini sono riuscite a bloccare.

Ciò che cercheremo qui di dimostrare è che l’incapacità di mutare (e quindi anche di progredire) non è un’eccezione di quest’epoca, ma un tratto distintivo del popolo indiano che non potrà certo cambiare per volontà dei vertici e soprattutto non nell’arco di qualche decennio.

Per gli affezionati alla cronaca – ai quali poco importa di osservare la storia in una prospettiva di lungo periodo – basti dire che, se tali ipotesi fossero fondate, le implicazioni nella realtà odierna non sarebbero da poco. Si pensi ad esempio al recente accordo annunciato al G20 relativo al corridoio India-Middle East transport corridor (una rete di infrastrutture commerciali alternativa alla cinese “Via della seta” che dovrebbe collegare l’India a l’Europa passando per il medio oriente): se tale progetto partisse dal presupposto di trasformare l’india in una nuova Cina – ossia nell’industria che rifornisce l’occidente con prodotti a basso costo – questo implicherebbe una trasformazione radicale del paese che difficilmente potrà mai realizzarsi.
Per rispondere alla domanda iniziale si potrebbero analizzare diversi aspetti: strategici, economici, militari. Tuttavia analisi di questo tipo, per quanto utili e interessanti, ignorano troppo spesso ciò che vien prima di tali aspetti e che inevitabilmente li determina: il fattore umano
Troppo abituati ad osservare i prodotti dell’uomo, spesso dimentichiamo che è proprio l’uomo (soprattutto nella sua forma aggregata) la componente essenziale di un paese.
È il modo in cui una certa collettività si è organizzata nel tempo, le regole che si è data, la sua storia che ci permettono di comprendere come questa affronterà il presente ed il futuro; cosa potrà o non potrà essere.
Bisogna quindi comprendere lo spirito del popolo prima di tuffarsi nei suoi prodotti.
Tra gli analisti geopolitici c’è chi sostiene il primato dell’oggetto (economia, industria ecc.) sul soggetto e chi, viceversa, crede che l’oggetto, in quanto prodotto del soggetto, passi in secondo piano.
Molti di quest’ultimi (di cui condividiamo i presupposti) ritengono giustamente che l’India non potrà diventare una superpotenza al pari di Stati Uniti e Cina, principalmente a causa delle divisioni interne alla popolazione. Si afferma, in sostanza, che tali differenze (di carattere etnico, linguistico e religioso) non permettano allo Stato federale indiano di diventare una grande potenza.
Qui ci chiederemo quale sia l’origine di questa eterogeneità, da cosa sia determinata e cosa potrà in futuro determinare.

LA "RAGIONE" DELLA SUPERPOTENZA

L’ingegno di ogni popolo si misura nella capacità di modellare il proprio mondo; di agire in maniera trasformativa rispetto alla realtà esterna e all’organizzazione sociale; di manipolare e adattare l’oggetto al soggetto e il soggetto all’oggetto, in modo che la collettività possa trarne il maggior vantaggio rispetto a propri obiettivi e imperativi.
È ciò che distingue l’uomo dalla bestia e che determina il primato di un popolo sugli altri.
Nella storia umana si ha contezza di tutto ciò, ma in forma quasi inconsapevole. Come ebbe a dire Hegel «ciò che è noto, per ciò stesso non è conosciuto». Se non ci facciamo oggetto di noi stessi, se non astraiamo la nostra soggettività, osserveremo l’eterno fluire come fosse semplice esteriorità, attribuendovi cause puramente esogene poiché la razionalità che vi rintracceremo non avrà alcunché di soggettivo. Sarà puro intelletto.
Si sa, ad esempio, che le rivoluzioni industriali hanno fornito un vantaggio smisurato ai paesi europei sugli altri popoli del mondo e che questo ha fornito gli strumenti per imporre il loro volere su gran parte del mondo. Allo stesso modo, è noto che le capacità tecnologiche ed ingegneristiche degli antichi romani permisero a questi di emergere come potenza egemone per diversi secoli nel mondo antico.
La questione però non riguarda solo la pura esteriorità, ossia il rapporto soggetto-oggetto e come il primo riesce a modellare e sfruttare il secondo a suo uso e consumo.
Legato a questo vi è soprattutto il rapporto del soggetto con sé stesso, ossia della ragione e della collettività con sé stessi. Non vi può essere infatti fissità dell’uno e progresso dell’altro. Non vi poteva essere la prima rivoluzione industriale con l’organizzazione feudale, così come l’evoluzione della macchina militare romana non si sarebbe potuta compiere con l’organizzazione statale dell’età regia. Il cambiamento esteriore, per compiersi, richiede quello interiore.

Si tratta di cambiamenti radicali, non di semplici mutamenti conformi a ciò che vi preesisteva.
È piuttosto un Aufhebung: un superamento consistente nel togliere e nel conservare. È il cambiamento che avviene quando la società si fa oggetto di sé stessa, della sua riflessione. Quando il sentimento del popolo informa sé stesso della necessità di mutare. Quando lo spirito del popolo, la ragione, scorge all’orizzonte il crepuscolo e comprende di doversi preparare ad una nuova alba.
Così avvenne nel ‘700, quando l’illuminismo preparò il terreno per la prima rivoluzione industriale e per il superamento di un sistema sociale ormai vetusto.

Sin qui ciò che è noto. Per essere conosciuto, però, è necessario comprendere il perché delle differenze tra popoli. Perché la fissità plurisecolare di taluni paesi e la mutevolezza di talaltri?
La risposta è da ricercarsi nel
rapporto del popolo con la ragione: come questa è intesa, quale ruolo le viene assegnato.
Stabilirne il significato condiziona l’uso, il campo d’azione. La grande eredità greca – della quale l’occidente non dovrebbe mai smettere di essere grato – deriva proprio dall’aver fatto coincidere l’universale, l’assoluto con la ragione.

La ragione, essendo l’universale, è ciò che deve guidare la conoscenza e la società, conoscere l’oggetto e il soggetto. Nella ragione, inoltre, è insito il principio che si oppone alla fissità. Essa non potrà mai essere statica ma in continuo movimento assieme alla realtà (Panta rei). Così come la realtà muta, anche la ragione deve mutare e per ciò stesso l’uomo. Un’anticipazione del principio evoluzionistico che recita “sopravvive il più adatto”.
Lì dove, invece, gli spazi della ragione sono delimitati (se non addirittura annullati), alla realtà viene imposta una fissità strumentale, volta a mantenere un equilibrio perenne per timore di una sbilanciamento momentaneo. Lì la ragione è clandestina e la superstizione è di casa. È quest’ultima che tesse una volta e per sempre gli equilibri di un eterno immobile, mentre alla prima viene concesso di sfogare il suo impulso al di fuori di tali confini, lì dove non potrà arrecare danno al dio dell’immobilismo.
La concettualizzazione della ragione è dunque l’origine di una differenza incommensurabile.

Tuttavia questa potenza (dynamis) per trasformarsi in energia (energheia) necessita di qualcosa che inneschi il processo. Secondo Hegel, ad esempio, è il perseguimento della libertà che muove il cambiamento. Non la libertà come concetto predefinito. Non le mille sfumature derivanti dall’ideologia di riferimento, ma ogni concettualizzazione di libertà per come differentemente si manifesta in ogni comunità. È il credere ingiusta e oppressiva una determinata condizione che porta a ricercare la libertà. Ed è proprio questo il kairos, il momento opportuno in cui il processo si innesca e la ragione esce dai confini che fino a quel momento si era data, così da trasformare nuovamente il mondo.
Ma la libertà è essa stessa un concetto. Non esisterebbe senza ragione. È questa a renderla possibile poiché pensabile. È la ragione stessa che si dota degli gli strumenti per svilupparsi.
«Così l’uomo è pensante quando pensa il suo pensiero; in tal modo l’oggetto del pensiero è il pensiero stesso, così la razionalità produce il razionale, la ragione è oggetto di se stessa. Può sembrare che l’uomo, in sé ragionevole, divenendo ragionevole per sé non sia progredito affatto, dal momento che non è aggiunto alcun contenuto nuovo: tuttavia questa forma dell’esser per sé costituisce una differenza enorme. Su questa differenza si basa ogni distinzione che si presenta alla storia universale. Ad esempio, pur essendo tutti gli uomini ragionevoli per natura e pur essendo la libertà la forma necessaria di questa razionalità, e benché questa sia la sua natura, tuttavia è esistita ed in parte esiste ancora la schiavitù presso molti popoli e questi popoli ne sono soddisfatti. Così l’unica differenza tra i popoli africani e asiatici da un lato e i greci, i romani, i moderni dall’altro risiede nel solo fatto che questi sanno di essere liberi per sé e lo sonomentre quelli, per quanto lo siano, non lo sanno e quindi non vivono in libertà. Ciò costituisce l’immensa differenza delle loro relative condizioni. Ogni sapere, ogni apprendere, ogni scienza ed anche la stessa azione non mira ad altro se non a render espresso e manifesto ciò che è intimo ed in sé, e quindi oggettivarsi a sé»[1].
Ciò che qui viene splendidamente sintetizzato da Hegel, è che la libertà è il principio della ragione, e la ragione è il presupposto della libertà. Solo quando la ragione si pone come oggetto di sé stessa si potrà giungere a tale verità. Solo riconoscendo che l’uomo è in sé libero (proprio in quanto uomo) si potrà perseguire tale libertà, riconoscerla e raggiungerla tramite la ragione (“la razionalità produce il razionale“). Viceversa, non ponendo la libertà come principio, e pur vivendo in condizione di libertà, questa non potrà essere riconosciuta e tantomeno perseguita. Ma per riconoscere la libertà come principio connaturato nell’uomo, serve che alla ragione venga attribuito il ruolo che le spetta.
Solo chiarendo quanto detto sin qui è possibile comprendere l’enorme differenza tra i popoli occidentali e la popolazione indiana. Solo così possiamo comprendere perché certe popolazioni sono mutate innumerevoli volte nella storia, riuscendo ad adattarsi meglio al mondo, a sfruttarlo per progredire e porsi così al di sopra di altre, mentre altre sono rimaste uguali a sé stesse per secoli e millenni, mostrando ancora oggi i tratti di una comunità arcaica [2].
Le lotte interne della popolazione, la divisione in caste, i grossi limiti socio-economici non sono avulsi da tale discorso. Essi ne sono l’effetto. 

L'INDUISMO COME OSTACOLO GEOPOLITICO

Per comprendere lo spirito di un popolo è necessario immergersi nella sua cultura, nella sua religione, nelle sue usanze e costumi.
Se compissimo lo sforzo di astrarci da noi stessi per osservarci dal di fuori, scopriremmo che il tratto distintivo dell’uomo occidentale risiede proprio nell’aver posto la ragione al di sopra di tutto. Qui Dio è logos, il quale è anche presso di noi che “conserviamo” parte di Dio in quanto esseri razionali. Nei secoli, innumerevoli furono i tentativi di comprendere Dio tramite la ragione poiché, per come è inteso, è esso stesso a porsi come conoscibile tramite il pensiero.

Ma se Dio è l’origine della nostra razionalità, non può che lasciar liberi i suoi figli nell’impiegarla. Ci indica la via, di utilizzarla secondo taluni principi, ma lascia libero l’uomo nelle sue scelte di impiego. Quando l’uomo trasforma Dio in un tiranno, in colui che ci offre un dono così prezioso come la ragione per poi incatenarlo ai suoi precetti, ecco che l’uomo occidentale scopre che Dio è già presso sé stesso (la ragione). La svolta illuminista, nella sostanza, non fu altro che la riappropriazione della ragione, sottratta ad un principio metafisico che l’uomo trasformò (in quei secoli) nel garante dell’immobilismo e della fissità di pensiero. Come Napoleone, incoronammo noi stessi (con ciò non si vuole certo tessere le lodi di un’idolatria autoriflessa che troppo spesso monta in superbia, poiché c’è differenza tra l’attribuire alla ragione il suo giusto valore e credere nella sua infallibilità).

Al tempo stesso, è necessario riconoscere che tale riappropriazione fu resa possibile dalla stessa concettualizzazione della divinità. In una religione dove Dio è ragione e gli uomini i suoi figli – ai quali infonde il logos come tratto distintivo – è possibile un processo di distacco di tal portata. Così come è possibile in collettività dove le divinità sono chiare rappresentazioni antropomorfe (greci e romani). 
Questa, che a noi può sembrare una grande ovvietà, è una peculiarità di pochi popoli. I più ,nel mondo, si sono dotati nei millenni di divinità prescrittive, poste al di là della ragione. Divinità che non si limitano ad impartire indicazioni dall’alto – alle quale si può o meno obbedire – ma si insinuano in ogni piega della vita umana: organizzano la struttura socio-politica, stabiliscono una gerarchia sociale, definiscono i doveri e i privilegi di ogni ceto (o casta, in questo caso).
L’India si situa fra questi popoli. Essa è il paese della fantasia e del sentimento. È il luogo «dell’idealismo dell’immaginazione, vuoto di concetto. L’immaginazione prende le mosse dal mondo esistente, ne ricava il suo materiale, ma trasforma ogni cosa in alcunché di immaginario» [3].
Se ci si interroga sulla struttura interna dei popoli indiani e della loro organizzazione, è alla concezione religiosa che dobbiamo volgere la nostra attenzione. Questa è uno dei pochi elementi che accomuna gran parte di quei popoli ma che, dato il suo carattere, non rappresenta uno spirito unitario ma parcellizzante.
Non pretendiamo qui di descrivere nel dettaglio una religione già assai difficile da comprendere. Ci limitiamo piuttosto a dedurne alcune (fondamentali) implicazioni.
La ben nota suddivisione in caste – il cui potere si tentò formalmente di arginare a partire dal 1947 (con scarso successo), anno dell’indipendenza dall’impero britannico – è l’effetto di una dettagliata concezione religiosa (e quindi anche filosofica) e, al tempo stesso, si pone come causa dell’immobilismo socio-politico del paese.
I principi di tale religione sono racchiusi nei Veda e nei Dharmasàstra, così come indicato ne “Le leggi di Manu”, il più noto dei Dharmasàstra: «Convien sapere che la Rivelazione è nel Libro Santo (Veda) e la Tradizione nel Codice delle leggi (Dharmasàstra); l’una e l’altra non devono essere in nessun luogo contestate perché il complesso dei doveri ne emana tutt’intero» [4].
I questi testi, nei quali si alternano preghiere e prescrizioni, ritroviamo lo spirito del popolo indiano.
Centrale è il concetto di Brahman (neutro), l’essere supremo, «colui che solo lo spirito può concepire, che sfugge ai sensi, che è senza parti visibili, eterno, l’anima di tutte le cose, che nessuna creatura può comprendere» [5]. Brahman è astrattezza assoluta.
La perfezione religiosa, per gli indiani, è proprio l’elevazione a Brahman. 
Per far ciò, è necessario appunto elevarsi al di sopra della concretezza del reale, rinunciare ai propri sensi e desideri, ma soprattutto alla ragione, poiché l’essere supremo sfugge a qualsiasi forma di conoscenza. «Dio è l’Inconoscibile, senza nomi né attributi, noto solamente a coloro che non sanno» [6].
Non è logos ma essenza. Brahman è quindi una divinità vuota, poiché può essere raggiunta solo annullando sé stessi, la propria soggettiva. Egli è presso l’uomo solo se l’uomo alberga altrove. È negazione.
In quanto essenza, Brahman è in ogni cosa, animata o inanimata. Il panteismo dell’immaginazione fa sì che l’uomo sia quasi svilito di fronte alla natura, poiché l’essere supremo non chiede a questa altro da ciò che è, al contrario di quanto invece vien richiesto all’uomo. Al tempo stesso, però, la presenza dell’eterno nella natura rende questa tutt’altro da ciò che essa realmente è. L’aria, la terra, le montagne e i fiumi assumono caratteri che trascendono il loro spirito concreto. La terra e il cielo sono Brahma (maschile), l’acqua e il sole Vishnu, il fuoco e la luna Shiva. Anche gli animali rappresentano innumerevoli divinità.
Poiché Brahman è presente in ogni cosa, ogni divinità è essa stessa Brahman. «Nella generale divinizzazione di tutte le cose finite, e quindi nella svalutazione della divinità, l’idea dell’incarnazione di Dio, del suo farsi uomo, non è un pensiero di particolare importanza» [7].
Per comprendere meglio l’importanza di quando testé descritto, è utile forse riprendere un passo ben più conosciuto alle nostre latitudini:
 

(26) E Dio disse: «Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza, e domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano sulla terra».
(27) Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò.
(28) Dio li benedisse e disse loro: «Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra; soggiogatela e dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente, che striscia sulla terra» [8].

 
Nell’induismo l’uomo è solo una tra le molteplici creature, al pari di montagne, fiumi e animali. Egli non gode di un ruolo privilegiato, anzi, per certi versi ne è subordinato poiché, per avvicinarsi a Dio, deve procedere ad annullarsi. L’uomo non viene posto al di sopra della natura e questa non viene posta al suo servizio.
Al contrario, nella cultura occidentale – come si evince dai summenzionati passi della Genesi – l’uomo è l’essere vivente prescelto. Fatto ad immagine e somiglianza di Dio e dotato quindi di logos. Le creature animate ed inanimate sono state poste al suo servizio da Dio stesso.
Non importa la presenza o assenza della fede nel privato. La cultura occidentale è immersa in tali principi da migliaia di anni. Il suo canone è stato forgiato su queste concezioni. Che tu sia un illuminista ateo od un fervente cristiano, nella maggior parte dei casi avrai comunque introiettato il principio secondo il quale l’uomo sta sopra la natura e la domina – o perché l’uomo ha in sé la ragione, o perché la ragione è un dono di Dio, in entrambi i casi questo è lo strumento che glielo permetterà.
Ritorniamo all’Induismo. L’abbiamo definito “idealismo dell’immaginazione” per un motivo ben preciso. Il suo panteismo ha dei tratti peculiari che lo distinguono da altre concezioni che, in un primo momento, possono apparire simili.
Vi sono (e vi sono stati in passato) panteismi caratterizzati dalla venerazioni dei diversi aspetti della natura in virtù della loro funzione: i fiumi come fonte di vita poiché fornivano acqua agli uomini o perché rendevano fertili le terre; la pioggia perché bagnava i campi; il sole perché permetteva la vita; gli animali in quanto fonte di cibo; le stelle perché guidavano l’uomo nei suoi viaggi, ecc.
Tale forma di panteismo era figlio della ragione e non dell’immaginazione. Si coglieva lo spirito di quell’elemento, la sua funzione per l’equilibrio della terra e per l’uomo.
Cosa assai diversa il panteismo degli indiani. Esso non è figlio della ragione ma della più estrema immaginazione. I diversi elementi della natura non sono venerati in virtù di una razionalizzazione del loro posto nel mondo, ma in base a quanto viene prescritto nelle sacre scritture. Il loro significato è totalmente altro rispetto a ciò che concretamente sono.
Un’immaginazione siffatta trasforma la realtà in alcunché di concreto (e quindi non funzionale all’uomo) e la vita in un sogno perenne.
Ma l’aspetto forse più interessante della religione induista è il suo stretto collegamento con la sfera sociale. Per comprendere meglio tale connessione bisogna partire dal sistema delle caste.
Questo fu introdotto gradualmente a partire dal primo millennio a.C. e comprende cinque caste: sacerdoti (brahmana o bramini), guerrieri e reggitori (ksatriya), mercanti e artigiani (vaisya),  servi (sudra) e gli intoccabili (paria), a cui erano riservate le mansioni più umili e degradanti.
Riguardo ai bramini, il termine “sacerdote” potrebbe trarre in inganno. Essi, al contrario di come siamo soliti intendere la figura sacerdotale, sono venerati quasi come Dei. Sono gli unici a poter leggere i Veda nel vero senso della parola.

Essere posti al vertice della gerarchia sociale, implica che questi godano di enormi privilegi rispetto alle altre caste. Oltre ad essere venerati e rispettati, fino a poco più di un secolo fa i bramini non potevano essere arrestati e non pagavano tasse. Rappresentano veri e propri Dei del presente e la loro vita pratica è scandita da innumerevoli precetti particolari indicati nelle sacre scrittura (come è evidente ne “Le leggi di Manu” [9]). La peculiarità di tali precetti (che sono in misura maggiore per i bramini, ma sono presenti per ogni casta) risiede nel fatto che non si focalizzano tanto su indicazioni di tipo morale (“fai il bene, non arrecare danno, rispetta l’altro”, ecc.) cosicché ogni soggettività, nella sua libera riflessione, possa coglierne il senso. Al contrario le leggi che ritroviamo fanno riferimento principalmente a usanze alle quali viene loro attribuito un significato per i più oscuro. Sono precetti morali solo in quanto espressi all’interno dei libri sacri e non perché razionalmente comprensibili [10].

Questo loro carattere prescrittivo, unito all’incontestabilità di tali leggi, è alla base della fissità del popolo indiano. Ogni persona eredita alla nascita la casta di appartenenza e ciò che la nascita stabilisce, l’arbitrio non può in alcun modo cambiare. Così ognuno, dal momento che viene al mondo, sa che avrà per sempre una certa posizione sociale e avrà indicate le leggi che gli imporranno cosa esattamente dovrà fare.
Tutto ciò che non è compreso nelle leggi, diventa così un semplice sfogo della ragione che avrà il carattere della fuga. Una fuga dai recinti dove però la ragione soggettiva, essendole preclusa la riflessione su sé stessa, sulla sua condizione e sul sistema in generale (in quando già prescritto), assumerà la forma della sfrenatezza degli istinti non ancora interdetti dai precetti.
La libera soggettività è annullata. La ragione, dopo aver forgiato le sacre scritture più di tremila anni fa, si è cristallizzata in esse imponendo ai fedeli l’eterna immobilità.
L’accettazione della propria posizione nella gerarchia sociale e la sua legittimazione, trova il suo fondamento nella dottrina della reincarnazione, secondo la quale ognuno è oggi ciò che ha meritato di essere dalla vita precedente.
Come è facile intuire, questo è un costrutto formidabile per far sì che ognuno – soprattutto i più umili – accetti la propria condizione senza che gli sfiori il pensiero di sovvertire l’ordine precostituito.
La fantasia sfrutta la colpa (o il merito) immaginaria per porre le catene allo spirito soggettivo, facendo piombare su di esso responsabilità che non gli appartengono.
Si potrebbe pensare che anche in Occidente (nel Medioevo ad esempio) gli individui erano legati ad una specifica classe. Tuttavia vi erano tre grandi distinzioni: in primis, anche se è vero che la classe sociale si ereditava dalla nascita, era comunque possibile la mobilità sociale, seppur limitata in certi periodi; ogni condizione sociale era figlia del caso e non di responsabilità derivanti da una immaginaria vita precedente; ma soprattutto, in occidente la classe di appartenenza era irrilevante di fronte a Dio. Davanti a lui tutti erano uguali. Questa uguaglianza faceva sì che nel rapporto con la religione tutti avessero un valore infinito e assoluto.

L’importanza di tale differenza non ci interessa tanto per la distinzione religiosa, ma piuttosto per rimarcare come l’organizzazione politico-sociale fosse svincolata da precetti religiosi e, quindi, decisamente più mobile e plasmabile. La ragione soggettiva aveva il suo peso, e la ragione oggettiva non era uscita dal corpo collettivo per cristallizzarsi in un eterno immobile, ma al contrario era pronta a ripensare sé stessa e, così, a mutare.

CONCLUSIONI

Presso gli indiani è la diversità a costituire la sostanza. Dalla religione alla guerra, dall’agricoltura al commercio, finanche le occupazioni della vita quotidiana si trasformano irrimediabilmente in differenze fisse ed immutabili, precludendo alla soggettività ogni libera manifestazione.
L’unica possibile soluzione per trovare unità in tali distinzioni è la fede cieca in un’immaginazione che, nell’unirle, non può far altro però che rimarcarle.
In una realtà siffatta, l’indiano non riesce a trovar pace. Nell’immaginazione più sfrenata rintraccia il suo oppio, che è ad un tempo ciò che lo ingabbia e quel che gli permette di fuggire.
Ecco, dunque, che se ci si vuole interrogare sul futuro geopolitico dell’India, è necessario tener conto, in primis, del suo fattore umano.
La domanda che inizialmente ci siam posti, verrebbe ora rovesciata in queste: come può un paese fondato sullo spirito dell’immobilità assurgere a superpotenza al pari di Stati Uniti e Cina? Come può un paese, abituato a rincorrere gli altri sulla strada del progresso, riuscire a porsi come guida? Come possono attecchire le innovazioni in una società che non vuole mutare?
Come già detto in precedenza, i grandi progressi esteriori (tecnologici, industriali ecc.) sono avvenuti nella storia solo perché accompagnati (prima o subito dopo) da enormi stravolgimenti interiori (struttura sociale e governativa).
La storia dei paesi europei è la più chiara dimostrazione di quanto testé affermato. Ma come loro anche altri paesi come Stati Uniti e Giappone.
L’estrema eterogeneità interna dell’India – sfruttata in passato anche dagli inglesi per imporre il loro dominio – deriva inoltre dall’assenza di un’idea di Stato. Questa, infatti, diventa qualcosa di superfluo per un popolo in cui tutto (o quasi) è già prescritto. Nel quale non vi può essere interesse di popolo se non nel mantenimento delle usanze e della gerarchia sociale imposta da popoli di altri tempi. Dove lo Stato è una semplice espressione geografica e non è frutto del sentimento nazionale e della politica, ossia di quella ricerca di equilibrio nella lotta tra le parti (e, quindi, in continuo mutamento). Lo Stato ha un campo d’azione limitato e la sua funzione è puramente esteriore.
In assenza di uno Stato che funga da unità interiore, le differenze etniche e religiose accentuano ulteriormente questa eterogeneità.
È proprio a queste mancanze che tenta di rispondere il primo ministro indiano Narendra Modi e il suo partito (BJP). Seguendo l’ideologia dell’Hindutva, l’obiettivo è quello di superare le differenze interne (e combattere le minoranze etniche e religiose) creando un’identità nazionale fondata sulla religione induista. Ciò che però spesso non si è colto, è che tale processo (se si realizzasse) non porterebbe solo alla formazione di una forte identità nazionale, ma anche alla formazione di uno Stato che, ponendosi come garante (e impositore) del carattere nazionale, colmerebbe quella lacuna interno del paese. Detta in altri termini, potrebbe determinare la nascita di un’idea di Stato ben diversa dal passato.
Se ciò accadesse, si creerebbero le fondamenta di una possibile inversione di marcia nella storia indiana.
Siamo però piuttosto scettici a riguardo. Come abbiamo cercato di descrivere precedentemente, ciò che ha reso possibile le invasioni e le colonizzazione del paese (e che hanno accentuato le differenze interne al popolo indiano), deriva da una debolezza che origina proprio dalla sostanza dell’induismo. Credere di risolvere tale fragilità innalzando l’induismo a religione di Stato e ponendola come principio di identità della nazione, rischia di far scivolare il paese in un cul de sac.

Quel che vediamo oggi è un paese in crescita (soprattutto economica e demografica), ma la reale forza e unità si vede nei momenti di crisi e difficoltà. Solo in questi casi si potrà sapere se l’unità sarà stata costituita e reggerà all’urto, o se invece si sgretolerà in mille parti facendo riemergere le differenze che così tanto si è cercato di aggirare.  

[1] G.W.F. Hegel, Introduzione alla storia della filosofia, Laterza, 1987.

[2] È doveroso precisare che non vi è nessuna valutazione morale che si intende attribuire a tali differenze. Si sta semplicemente constatando che tali differenze hanno portato, nei secoli, alcuni popoli ad essere dominati e altri ad essere i dominanti.

[3] G.W.F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, Laterza, 2003, p. 120.

[4] Manava-Dharma-Sastra, Le leggi di Manu, trad. C. Vincenzi, società editrice Sonzogno, p. 17, § 10.

[5] Ivi, p. 5, § 7.

[6] H. Bavinck, La dottrina di Dio e della Creazione, Alfa&Omega, 2018, p. 26.

[7] G.W.F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, Laterza, 2003, p. 121.

[8] Genesi, cap. 1, § 26-27-28.

[9] Op. cit.

[10] Si passa dall’indicazione di quale bastone debbano avere i bramini e di quale materiale deve essere composto; all’indicazione di non mangiare dallo stesso piatto della moglie e di non guardarla mentre starnutisce o sbadiglia; non guardare il sole né all’alba é al tramonto; non disturbare una vacca mentre beve e non andare a darne avviso a colui del quale questa beve il latte; quando vede in cielo l’arma di Indra (l’arcobaleno) non la mostri ad alcuno. Questi sono solo alcuni esempi di cui Le Leggi di Manu sono pieni zeppi.