A riprova di ciò, basti pensare al perpetuarsi della gerarchia sociale in caste (nonostante siano state formalmente abolite nel 1947) o all’enorme opposizione ad una riforma agraria che cerca di superare un testo redatto più di mezzo secolo fa (l’Essential Commodities Act, una delle norme che si intendeva riformare, risale al 1955) e che le proteste dei contadini sono riuscite a bloccare.
Ciò che cercheremo qui di dimostrare è che l’incapacità di mutare (e quindi anche di progredire) non è un’eccezione di quest’epoca, ma un tratto distintivo del popolo indiano che non potrà certo cambiare per volontà dei vertici e soprattutto non nell’arco di qualche decennio.
Troppo abituati ad osservare i prodotti dell’uomo, spesso dimentichiamo che è proprio l’uomo (soprattutto nella sua forma aggregata) la componente essenziale di un paese.
È il modo in cui una certa collettività si è organizzata nel tempo, le regole che si è data, la sua storia che ci permettono di comprendere come questa affronterà il presente ed il futuro; cosa potrà o non potrà essere.
LA "RAGIONE" DELLA SUPERPOTENZA
Si tratta di cambiamenti radicali, non di semplici mutamenti conformi a ciò che vi preesisteva.
È piuttosto un Aufhebung: un superamento consistente nel togliere e nel conservare. È il cambiamento che avviene quando la società si fa oggetto di sé stessa, della sua riflessione. Quando il sentimento del popolo informa sé stesso della necessità di mutare. Quando lo spirito del popolo, la ragione, scorge all’orizzonte il crepuscolo e comprende di doversi preparare ad una nuova alba.
Così avvenne nel ‘700, quando l’illuminismo preparò il terreno per la prima rivoluzione industriale e per il superamento di un sistema sociale ormai vetusto.
La risposta è da ricercarsi nel rapporto del popolo con la ragione: come questa è intesa, quale ruolo le viene assegnato.
La ragione, essendo l’universale, è ciò che deve guidare la conoscenza e la società, conoscere l’oggetto e il soggetto. Nella ragione, inoltre, è insito il principio che si oppone alla fissità. Essa non potrà mai essere statica ma in continuo movimento assieme alla realtà (Panta rei). Così come la realtà muta, anche la ragione deve mutare e per ciò stesso l’uomo. Un’anticipazione del principio evoluzionistico che recita “sopravvive il più adatto”.
Lì dove, invece, gli spazi della ragione sono delimitati (se non addirittura annullati), alla realtà viene imposta una fissità strumentale, volta a mantenere un equilibrio perenne per timore di una sbilanciamento momentaneo. Lì la ragione è clandestina e la superstizione è di casa. È quest’ultima che tesse una volta e per sempre gli equilibri di un eterno immobile, mentre alla prima viene concesso di sfogare il suo impulso al di fuori di tali confini, lì dove non potrà arrecare danno al dio dell’immobilismo.
La concettualizzazione della ragione è dunque l’origine di una differenza incommensurabile.
L'INDUISMO COME OSTACOLO GEOPOLITICO
Ma se Dio è l’origine della nostra razionalità, non può che lasciar liberi i suoi figli nell’impiegarla. Ci indica la via, di utilizzarla secondo taluni principi, ma lascia libero l’uomo nelle sue scelte di impiego. Quando l’uomo trasforma Dio in un tiranno, in colui che ci offre un dono così prezioso come la ragione per poi incatenarlo ai suoi precetti, ecco che l’uomo occidentale scopre che Dio è già presso sé stesso (la ragione). La svolta illuminista, nella sostanza, non fu altro che la riappropriazione della ragione, sottratta ad un principio metafisico che l’uomo trasformò (in quei secoli) nel garante dell’immobilismo e della fissità di pensiero. Come Napoleone, incoronammo noi stessi (con ciò non si vuole certo tessere le lodi di un’idolatria autoriflessa che troppo spesso monta in superbia, poiché c’è differenza tra l’attribuire alla ragione il suo giusto valore e credere nella sua infallibilità).
La perfezione religiosa, per gli indiani, è proprio l’elevazione a Brahman. Per far ciò, è necessario appunto elevarsi al di sopra della concretezza del reale, rinunciare ai propri sensi e desideri, ma soprattutto alla ragione, poiché l’essere supremo sfugge a qualsiasi forma di conoscenza. «Dio è l’Inconoscibile, senza nomi né attributi, noto solamente a coloro che non sanno» [6].
Non è logos ma essenza. Brahman è quindi una divinità vuota, poiché può essere raggiunta solo annullando sé stessi, la propria soggettiva. Egli è presso l’uomo solo se l’uomo alberga altrove. È negazione.
(26) E Dio disse: «Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza, e domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano sulla terra».
(27) Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò.
(28) Dio li benedisse e disse loro: «Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra; soggiogatela e dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente, che striscia sulla terra» [8].
Essere posti al vertice della gerarchia sociale, implica che questi godano di enormi privilegi rispetto alle altre caste. Oltre ad essere venerati e rispettati, fino a poco più di un secolo fa i bramini non potevano essere arrestati e non pagavano tasse. Rappresentano veri e propri Dei del presente e la loro vita pratica è scandita da innumerevoli precetti particolari indicati nelle sacre scrittura (come è evidente ne “Le leggi di Manu” [9]). La peculiarità di tali precetti (che sono in misura maggiore per i bramini, ma sono presenti per ogni casta) risiede nel fatto che non si focalizzano tanto su indicazioni di tipo morale (“fai il bene, non arrecare danno, rispetta l’altro”, ecc.) cosicché ogni soggettività, nella sua libera riflessione, possa coglierne il senso. Al contrario le leggi che ritroviamo fanno riferimento principalmente a usanze alle quali viene loro attribuito un significato per i più oscuro. Sono precetti morali solo in quanto espressi all’interno dei libri sacri e non perché razionalmente comprensibili [10].
Come è facile intuire, questo è un costrutto formidabile per far sì che ognuno – soprattutto i più umili – accetti la propria condizione senza che gli sfiori il pensiero di sovvertire l’ordine precostituito.
L’importanza di tale differenza non ci interessa tanto per la distinzione religiosa, ma piuttosto per rimarcare come l’organizzazione politico-sociale fosse svincolata da precetti religiosi e, quindi, decisamente più mobile e plasmabile. La ragione soggettiva aveva il suo peso, e la ragione oggettiva non era uscita dal corpo collettivo per cristallizzarsi in un eterno immobile, ma al contrario era pronta a ripensare sé stessa e, così, a mutare.
CONCLUSIONI
Quel che vediamo oggi è un paese in crescita (soprattutto economica e demografica), ma la reale forza e unità si vede nei momenti di crisi e difficoltà. Solo in questi casi si potrà sapere se l’unità sarà stata costituita e reggerà all’urto, o se invece si sgretolerà in mille parti facendo riemergere le differenze che così tanto si è cercato di aggirare.
[1] G.W.F. Hegel, Introduzione alla storia della filosofia, Laterza, 1987.
[2] È doveroso precisare che non vi è nessuna valutazione morale che si intende attribuire a tali differenze. Si sta semplicemente constatando che tali differenze hanno portato, nei secoli, alcuni popoli ad essere dominati e altri ad essere i dominanti.
[3] G.W.F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, Laterza, 2003, p. 120.
[4] Manava-Dharma-Sastra, Le leggi di Manu, trad. C. Vincenzi, società editrice Sonzogno, p. 17, § 10.
[5] Ivi, p. 5, § 7.
[6] H. Bavinck, La dottrina di Dio e della Creazione, Alfa&Omega, 2018, p. 26.
[7] G.W.F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, Laterza, 2003, p. 121.
[8] Genesi, cap. 1, § 26-27-28.
[9] Op. cit.
[10] Si passa dall’indicazione di quale bastone debbano avere i bramini e di quale materiale deve essere composto; all’indicazione di non mangiare dallo stesso piatto della moglie e di non guardarla mentre starnutisce o sbadiglia; non guardare il sole né all’alba é al tramonto; non disturbare una vacca mentre beve e non andare a darne avviso a colui del quale questa beve il latte; quando vede in cielo l’arma di Indra (l’arcobaleno) non la mostri ad alcuno. Questi sono solo alcuni esempi di cui Le Leggi di Manu sono pieni zeppi.