Crisi internazionale e sistema di alleanze

Crisi della Pax americana e sistema di alleanze
Oggi si è al centro di un vivace dibattito riguardante la crisi della “Pax Americana”. Dall’Ucraina a Israele, dal Mar Rosso al Mar Cinese Meridionale, molti sono i rivali degli Stati Uniti che hanno deciso di sfidare l’ordine imposto dalla super potenza.
Nell’osservare questo fenomeno, ci sono due prospettive differenti, sia in termini temporali che di attori coinvolti.
La prima si proietta verso il futuro prossimo, concentrandosi sugli attuali rivali.
La seconda, invece, si focalizza sul futuro remoto, esplorando gli effetti a lungo termine di ciò che sta accadendo oggi. Questi non si limitano soltanto ai rivali, ma coinvolgono anche sé stessi e gli alleati.
Le due prospettive si completano reciprocamente e, per questo motivo, un’analisi seria deve tener conto di entrambe.
Oggi, però, gli eventi scorrono lesti e si perde la voglia di pensare a quel futuro che va oltre il domani. Ci si accontenta della prima prospettiva poiché difficile divincolarsi dalle pesanti catene che ci ancorano al presente.
Qui invece cercheremo di compiere tale sforzo.
Quando si cerca di guardare al medio-lungo periodo è necessario mettere in dubbio anche le certezze più solide.
È facile immaginare un possibile conflitto tra i paesi occidentali e Russia, Cina o Iran. Assai più arduo è comprendere come si comporteranno gli alleati degli Stati Uniti con l’aggravarsi del contesto internazionale.
Ed è proprio su tale aspetto che intendiamo concentrarci.
Questo perché qualsiasi potenza che si voglia super-potenza (e non solo) non può fare a meno di alleati. Essi sono forse il principale asset di una nazione.
Lo stesso Antony Blinken in un discorso tenuto a settembre 2023 ha affermato che la più grande risorsa strategica degli Stati Uniti risiede “nelle alleanze e nei partenariati”, lasciando intendere che solo coinvolgendo gli alleati nella partita globale gli Stati Uniti potranno preservare il sistema internazionale che hanno creato.
Tuttavia gran parte delle analisi si focalizzano esclusivamente sugli aspetti tecnico-giuridici delle alleanze, ignorando l’essenza umana che le governa e le modella.
Qui proveremo a far luce su tali aspetti che divengo ancor più rilevanti in un sistema internazionale che inizia a perdere le sue certezze.
La riflessione che intendiamo svolgere ha anche lo scopo di lanciare un campanello d’allarme.
 
Iniziamo, dunque, col dire un’ovvietà che, come tutte le cose ovvie, spesso vengono dimenticate: non tutte le alleanze sono uguali!
Semplificando, possiamo parlare di alleanze di collaborazione, alleanze di garanzia e alleanze di imposizione.
 
Le alleanze di collaborazione derivano dall’avere un interesse comune di livello strategico. Si tratta dunque di Stati indipendenti che, per contingenze storiche, trovano vantaggio nella collaborazione.
Il fatto però che tale forma di alleanza si basi su Stati indipendenti non significa che tale rapporto sia simmetrico. Così come il fatto che entrambe le parti scelgano di collaborare non implica che tale volontà non sia stata forgiata dalle necessità storiche del momento.
È il caso ad esempio dell'”amicizia senza limiti” tra l’Orso e il Dragone. Paesi che non si sono mai amati in passato e che oggi si trovano dalla stessa parte dello schieramento a causa di un nemico comune (gli Stati Uniti).
Il matrimonio d’interesse è assai più precario di quello dell’alleanza di imposizione. Al mutare delle condizioni anche gli interessi mutano e a seguire le alleanze. Un ben noto esempio fu quello del 1915, quando il Regno d’Italia, dopo un anno dallo scoppio della Prima Guerra Mondiale, infranse gli accordi stipulati nel 1882 (Triplice Alleanza con Germania e Austria-Ungheria) unendosi agli Alleati con la firma del Patto di Londra.
 
L’alleanza di garanzia si fonda su di un rapporto asimmetrico nel quale una nazione, consapevole di essere priva di consistenti capacità difensive, richiede ad un’altra di garantirne la sicurezza. In cambio offre sé stessa, la sua fedeltà, le sue risorse, un punto d’appoggio.
Chi richiede, ottiene un protettore contro i rivali regionali. Chi offre, ottiene un’estensione della propria influenza nella medesima regione (oltre a ritorni economici).
L’asimmetria inevitabile di tale forma di alleanza la rende più solida rispetto alla precedente, ma comunque meno stabile rispetto a quella di imposizione. Se un paese affida la sua difesa ad una nazione, non è così facile sostituire questa con un’altra, sia perché un accordo di difesa implica iniziative di lungo periodo (dalla creazione di basi militari, al trasporto di mezzi e uomini), sia perché trovare un protettore non è così semplice come trovare un partner commerciale.
Si pensi ad esempio al rapporto tra Stati Uniti e Arabia Saudita: già nel 1951 fu firmato l’accordo di Dhahran che stabilì una collaborazione in materia di difesa tra i due paesi, permettendo agli Stati Uniti di stanziare basi militari nel paese arabo. Accordo che col tempo venne sintetizzato nella formula “petrolio in cambio di sicurezza“, ma che in realtà offriva agli Usa molto di più (punto di appoggio strategico in Medio Oriente).
Da lì in poi, tra alti e bassi, Washington si pose quindi come garante della sicurezza saudita e, successivamente, della gran parte dei paesi del Golfo. Negli ultimi anni, però, i piani degli Stati Uniti mutarono e iniziarono un graduale disimpegno dal Medio Oriente cercando di passare il testimone ad Israele tramite i ben noti Accordi di Abramo che, oltre ad avere l’obiettivo di ricucire i rapporti trai paesi arabi ed Israele, ponevano quest’ultimo (prima potenza militare del Medio Oriente) come garante della sicurezza dell’area (da proteggere dalle minacce di Teheran).
 
Quando parliamo invece di alleanze di imposizione intendiamo dire che il rapporto è inevitabilmente asimmetrico, non tanto in termini di forza, quanto di volontà. In altre parole, quando l’essere alleati deriva, in origine, dalla volontà di uno dei due, e che l’altro subisce. In modo ancora più chiaro, quando un paese sconfitto (in modo esplicito, come Italia e Germania, o de facto come Francia e Gran Bretagna) entra per necessità nella sfera di influenza del vincitore.
Ci si chiederà perché tale rapporto venga definito alleanza e non vassallaggio. Perché ormai da qualche tempo si è compreso che un impero informale può avere vita più lunga e meno tormentata di uno formale.
Ad ogni modo, in un’alleanza di imposizione è chiaro che chi subisce la scelta altrui ha meno chances di far valere la propria volontà. Il ventaglio del possibile è limitato a ciò che vien concesso. È il caso, ad esempio, della Germania e dell’Italia dopo la Seconda Guerra Mondiale. Paesi sconfitti ed occupati, che tutt’oggi ospitano numerose basi americane e migliaia di militari sul proprio territorio. Si dirà che son qui per proteggerci da possibili minacce. Vero! Ma nel proteggere noi proteggono anche loro stessi, o meglio ancora, nel proteggere lo stessi sono costretti a proteggere anche noi (la loro sfera di influenza). Non si tratta di essere buoni o cattivi ma di salvaguardare i propri interessi.
Nei casi indicati, dunque, l’adesione al campo americano non derivò da una scelta ma da un’imposizione. Col passare degli anni, però, la necessità fece emergere in parte della popolazione anche la volontà, derivante dalla concreta convenienza rispetto alle alternative. Il tempo ha contribuito a forgiare l’adesione ideale sulle basi di un’adesione concreta.
Non basandosi su un rapporto fra pari, in questo tipo di alleanza qualsiasi colpo di coda di chi sta sotto subirebbe qualche forma di rappresaglia da parte di chi sta sopra, così da riportarlo all’interno dei confini prestabiliti. Una forma di pressione che spesso agisce lontano dalle telecamere per curar l’apparenza, ma che ad ogni modo permane.
 
Alla base delle tre forme di alleanza vi è il principio del do ut des, seppur differentemente declinato.
Nel caso dell’alleanza di collaborazione tale principio impone che l’alleanza duri finché entrambe le parti valutino che i vantaggi di mantenerla superino i costi di scioglierla. È ovvio che se gli interessi iniziassero a confliggere, o se uno non potesse essere di alcun aiuto all’altro, la percezione del vantaggio svanirebbe.
Nell’alleanze di garanzia l’accordo si fonda sulla richiesta di difesa e non sull’imposizione. Non implica una totale adesione (ideale e concreta) al campo di chi si pone come garante della sicurezza. La relazione è strettamente limitata a ciò che si pone sul piatto e, per questo, entrambe la parti godono di maggiore libertà nell’intrattenere relazioni diversificate (il caso dei paesi del Golfo è emblematico a riguardo).
Caso ben diverso è quello dell’alleanza di imposizione. Qui il partner principale offre (e impone) garanzie di sicurezza (soprattutto militare, ma spesso anche economica) e richiede fedeltà e adesione alle iniziative intraprese, ove richiesto. Il ventaglio di possibilità di chi riceve è ben più limitato rispetto alla precedente alleanza, poiché la fedeltà richiesta è totale.
 
Ciò che accomuna queste tre tipologie di alleanza è il fatto di fondarsi su di un elemento squisitamente umano (e come potrebbe essere altrimenti?): la fiducia. La convinzione, cioè, che al “dare” segua realmente il “ricevere“. E questo vale non solo in termini di volontà ma anche di capacità.
Perché l’alleanza non si sgretoli non è sufficiente che si abbia la volontà di dare all’altro quanto richiesto o garantito. È necessario soprattutto essere in grado di poter dare ciò che si è stabilito di offrire. Di più. Colui che riceve deve maturare la convinzione che l’altra parte abbia veramente la volontà e la capacità di poter offrire quanto richiesto.
È dunque dalla reciproca percezione che deriva la solidità di un’alleanza.
Un trattato si può rompere, il diritto infrangere se l’interesse muta o la percezione di reciprocità crolla.
L’importanza delle tre alleanze si misura però in base al contesto.
In tempo di (relativa) pace l’alleanza di imposizione è senza dubbio la più profittevole per entrambe le parti. A chi la impone non è richiesto un notevole dispendio di risorse per la difesa degli alleati e, al contempo, può godere di punti di appoggio necessari ad estendere la sua influenza. Può così dedicarsi ad altre iniziative.
Inoltre, non essendoci minacce rilevanti alla sicurezza propria e altrui, non vi è motivo per i partner di minoranza di dubitare della garanzia di sicurezza offertagli.
Dall’altro lato, questi ultimi, in virtù di tale sicurezza, possono tranquillamente occuparsi d’altro: concentrarsi sull’economia, sugli affari interni, sul vivere bene fuori dalla Storia.
In tempo di guerra o di policrisi, però, tale forma di alleanza inizia a mostrare i suoi limiti. Chi è al vertice è costretto ad occuparsi della sicurezza propria e altrui, con immenso dispendio di risorse che incidono negativamente sul fronte interno. I suoi alleati sono spinti a forza nella Storia e vien chiesto loro di contribuire maggiormente a quella sicurezza che gli era stata garantita. L’evidente rischio è che, chi sta al vertice, non possa (per volontà o capacità) rispettare a pieno le promesse fatte, e chi sta a valle inizi a perdere fiducia nel suo garante, iniziando in un primo momento a non rispondere più alle richieste che provengono dall’alto e dopo, chissà, forse anche a rivalutare la propria condizione. D’altronde, se le garanzie decadono e si è costretti non solo a badare a sé stessi ma anche a supportare (a proprie spese) colui che il suo supporto l’ha negato (in parte o in toto), non è difficile immaginare che qualcuno possa valutare che per perseguire il proprio interesse sia necessario guardare altrove. In fin dei conti, se chi sta al vertice non è in grado di fornire l’aiuto concordato, non sarà nemmeno in grado di avviare la temuta rappresaglia.
Purtuttavia, questa tipologia di alleanza si mostra comunque ben più solida in tempo di crisi di quella di garanzia. Quest’ultima, infatti, per quanto possa rimanere in piedi in tempo di pace, inizia subito a scricchiolare quando la guerra incombe. Se chi si è appoggiato agli strumenti di difesa altrui percepisse il rischio di essere trascinato in una guerra sgradita o, al contrario, comprendesse che il suo garante non lo difenderebbe da una possibile minaccia, farebbe saltare immediatamente l’accordo.
Se invece la minaccia provenisse dal teatro di crisi considerato primario per il garante e all’origine della richiesta di garanzia del richiedente, allora tale forma di alleanza si rivelerebbe ancor più solida, poiché corrispondente agli interessi che l’hanno formata.
Per l’alleanza di collaborazione il discorso è al contrario. L’unica funzione che può avere in tempo di pace è quella di prepararsi per la guerra. Essa si basa sulla convergenza di obiettivi strategici e questi di rado si conciliano con la pace.
Proprio perché fondati su tali obiettivi, ad entrambe le parti è richiesta la partecipazione poiché nel comune interesse perseguirli.
Per quanto possa essere un rapporto asimmetrico, non ricade comunque nella forma del protettorato (come i precedenti). Ciò significa che nessuno può veder disattesa alcuna aspettativa di sicurezza. Non possono sorprendersi di dover agire attivamente per salvaguardare i propri interessi. Il problema è semmai quello di intessere alleanze avendo ben chiaro il contesto storico che si vive, così da evitare improvvisi cambi di casacca dovuti all’incapacità di prevedere la differente declinazione degli interessi altrui.
Tale alleanza si fonda dunque sulla capacità di cogliere gli imperativi strategici propri e dell’altro e cercando di trovare il modo in cui entrambi, nel loro perseguimento, possano essere d’aiuto vicendevolmente.
Da ciò emerge con chiarezza che tale forma di alleanza è ben più funzionale delle altre in periodi di crisi e guerre.
 
E qui torniamo alla questione iniziale: gli alleati degli Stati Uniti.
L’enorme forza sprigionata negli scorsi decenni, ha fatto sì che la gran parte degli alleati americani ricadano nell’alleanza di garanzia e nell’alleanza di imposizione. Effetto della vittoria, punto di forza in tempo di pace, si rivela debolezza in tempo di crisi (per non dire di guerra).
Gli alleati di tutto il mondo si aspettano che gli Stati Uniti rispettino l’antica promessa, che garantiscano con tutti i mezzi necessari la loro sicurezza.
Ma, come è evidente da questi ultimi due anni, Washington non ha né la voglia né le capacità di impegnarsi in ogni crisi che sta emergendo. La sovraestensione del suo impero informale gli si sta ritorcendo contro.
Dall’Europa all’Africa, dal Medio Oriente all’Indopacifico, innumerevoli sono i paesi che richiedono il supporto statunitense. Ma nel cercare di indirizzare mezzi e risorse nei teatri di interesse primario, troppi sono i paesi che sta scontentando.
Il fatto che gli Stati Uniti non facciamo più la stessa paura ai suoi nemici ha finora concentrato l’attenzione su questi ultimi. Come se la crisi della deterrenza si misurasse solo al di là dei propri confini. Effetto di breve periodo.
Nel campo avversario sanno bene che questo contesto potrebbe creare pericolose crepe nel cosiddetto “blocco occidentale”.
Come accennato precedentemente, ogni alleanza si fonda sulla fiducia. La crisi della deterrenza americana, incidendo sulla loro credibilità, rischia di fare a pezzi anche la fiducia che gli alleati vi ripongono.
Gli Stati Uniti hanno mostrato che l’unica regione nella quale sono disposti ad impegnarsi direttamente (e con tutte le loro forze) è l’Indopacifico. Lì si giocano le sorti del mondo. Lì risiede la grande superpotenza rivale.
Per tale motivo, è proprio lì che iniziano ad emergere sempre nuove alleanze di garanzia, le quali originano da paesi che si sentono minacciati dalla crescita cinese e richiedono protezione agli Stati Uniti in cambio di fedeltà e punti d’appoggio (soprattutto per la Marina militare). È guardando all’Indopacifico che negli ultimi anni gli Stati Uniti hanno avviato nuove iniziative diplomatico-securitarie come il QUAD e l’AUKUS e accordi bilaterali di difesa e sicurezza con paesi come le Filippine, Taiwan ecc.
Ad esclusione di Giappone e Corea del Sud – che, pur nelle differenze, possiamo inserire nelle alleanze di imposizione – la rete di alleanze che gli Stati Uniti stanno costruendo in questi anni ricadono nel perimetro delle alleanze di garanzia. Per tutti quei paesi la fiducia verso l’America non sta scemando. Ogni giorno possono constatare che l’interesse primario del loro garante si colloca esattamente in quei territori.
 
Quel che potrebbe incrinarsi, invece, è proprio il sistema di alleanze in Occidente.
Le mille sfumature all’interno della NATO rispecchiano le diverse motivazioni dell’ingresso.
L’elemento comune è il bisogno di sicurezza fornito dall’ombrello statunitense, ma le diverse consapevolezze sul proprio ingresso ne condizionano i destini.
Il pericolo più grande per gli Usa riguarda ovviamente la parte più ricca e progredita d’Europa, ovvero quella occidentale. Quadrante geopolitico che entrò nella sfera di influenza americana dopo la Seconda Guerra Mondiale – dunque inseribile nell’alleanza di imposizione – e che ora inizia a perdere fiducia nel suo garante.
L’origine delle possibili crepe risiede nel fatto che l’Europa, pur rimanendo un asset fondamentale per gli Stati Uniti, sta venendo offuscata dalle contingenze storiche del momento.
Per mezzo secolo gli europei sono stati abituati ad essere al centro delle attenzioni del protettore d’oltreoceano. Inevitabile conseguenza di una cortina di ferro che spaccava a metà il vecchio continente e con la presenza del principale rivale oltrecortina.
Oggi però il contesto è mutato. La Russia non fa più paura come l’Urss e i piani degli Usa prevedono che i paesi europei provvedano alla propria sicurezza (e in Europa iniziano a capirlo), pur mantenendo totale fedeltà verso di loro. Piani che infrangono la grammatica dell’alleanza a cui erano abituati gli europei.
La guerra in Ucraina ha fatto emergere tali questioni. Gli Usa hanno offerto il principale supporto, ma facendo continue pressioni ai paesi Europei per fare sempre di più.
Con lo scoppio della crisi in Medio Oriente e nel Mar Rosso, le pressioni di Washington sono diventate sempre più esplicite (anche verso l’Italia) a causa delle ritrosie europee nel prendere posizione contro gli Houthi dello Yemen, sia in termini di condanna, sia di operazioni militari.
A ciò si aggiungano le richieste più volte rivolte agli europei da Washington per un Decoupling dalla Cina e che il vecchio continente ha subito convertito in un più moderato De-risking.
Valutando quanto sin qui descritto in base alla forma di alleanza in origine e al criterio del do ut des, non è difficile immaginare che i malumori europei siano destinati ad aumentare.
In un’alleanza di imposizione gli interessi dei paesi di chi sta sotto non devono per forza coincidere con quelli di chi sta sopra. Anzi, viene posto come interesse superiore il mantenimento del garante come superpotenza, poiché da tale status dipende anche la propria sicurezza. È ciò che è avvenuto durante la Guerra Fredda.
Se però la percezione di garanzia crolla e le richieste aumentano, anche l’interesse superiore inizia a sgretolarsi, facendo riemergere i propri interessi nazionali.
Le crepe nelle alleanze occidentali non sono ancora del tutto evidenti, ben nascoste dietro giustificazioni di contingenza (scarsi armamenti, timori di un allargamento del conflitto ecc.). Ma il rischio per il futuro è più che concreto.
Mentre l’aumento delle crisi internazionali costringe i rivali a rafforzare le proprie intese (alleanze di cooperazione), in occidente l’effetto rischia di essere l’esatto opposto.
Questo non significa per forza una rottura, ma una possibile ridefinizione degli accordi. Se gli Stati Uniti non potranno più garantire la totale sicurezza di quei paesi (tra cui il nostro) e, al tempo stesso, chiederanno rinunce e una partecipazione attiva alle sfide globali, lo scontento si diffonderà a macchia d’olio. Si inizierà ad interrogarsi sulle fondamenta di tale alleanza, sui vincoli imposti in cambio della sicurezza non più garantita. Ripensare tali accordi potrebbe anche comportare che alcuni paesi decidano di prendersi talune libertà sin qui impensabili. Evento che potrebbe dare inizio ad un effetto a catena.
 
Se, come ha affermato Blinken, la più grande risorsa strategica degli Stati Uniti risiede “nelle alleanze e nei partenariati”, Washington non potrà ignorare questo scenario.
Dalla guerra in Ucraina, alla crisi in Medio Oriente, finendo con la rivalità con la Cina, gli europei iniziano a dubitare che i propri interessi convergano con quelli degli Stati Uniti. Il principio del do ut des inizia a vacillare e, prima che sia troppo tardi, è necessario sforzarsi di guardare oltre il domani per ridefinire assieme obiettivi di lungo periodo.

(Questo articolo è stato precedentemente pubblicato su Dissipatio)