Scienza e “scienze” sociali

Scienza e scienze sociali

Scienze sociali: la ricerca di una scientificità impossibile?

Da qualche decennio pare che il politically correct si sia insinuato anche nell’accademia. Per non far torto a nessuno, è stato concesso ad ogni disciplina universitaria di fregiarsi del titolo di scienza. Una certificazione che in molti casi ricorda più la medaglia di partecipazione che viene offerta a coloro che gareggiano in un torneo solo in quanto partecipanti alla competizione. Un trofeo conferito forse per premiare l’impegno decennale nella ricerca disperata di un qualche criterio di scientificità.
Le cosiddette “scienze sociali”, infatti, hanno speso fiumi e fiumi di inchiostro per tentare di dimostrare di essere anche loro meritevoli di tale appellativo. In un primo momento (XIX secolo) hanno cercato di aggrapparsi ai metodi e agli strumenti della scienza vera e propria. Successivamente, visti gli insuccessi, hanno cercato di trovare nuovi criteri che si amalgamavano meglio a ciò che studiavano. Criteri di studio che si volevano scientifici poiché nel frattempo si era tentato di rimodellare il concetto di scienza rendendolo più morbido e inclusivo.
Tale complesso di inferiorità delle discipline sociali – incapaci di accettare che non tutte le forme di conoscenza possono essere scientifiche e che questo non implica perciò stesso non essere conoscenze valide – ha portato ad irrigidire ambiti di studio, a blindarli all’appartenenza ad una certa cerchia accademica e a produrre un’enormità di ricerche inutili ma considerate valide dagli stessi che le promuovono, creando un circolo vizioso di produzione che ha come unico scopo quello di autoalimentarsi per sopravvivere.
In virtù di tali problematiche, qui cercheremo di fissare alcuni punti, tanto per ricordare quali siano i principi fondanti della scienza.
Non pretendiamo di esaurire l’argomento in un articolo. Non discuteranno le prospettive di Popper, Kuhn, Feyerabend e gli interrogativi su come proceda la scienza. L’obiettivo che ci poniamo è assai più semplice ma al tempo stesso più importante (a nostro avviso), poiché l’intento è ricordare cosa c’è alle fondamenta di ciò che può, a giusto titolo, chiamarsi scienza.

La nascita della scienza moderna: l'applicazione della matematica alla natura

Il modo migliore per comprendere cosa sia la scienza moderna è quello di studiare la storia della scienza.
Senza farla troppo lunga: la nascita della scienza moderna deriva sostanzialmente da un principio (come ha magistralmente evidenziato Alexandre Koyré): l’applicazione della matematica al mondo della natura. Più nel dettaglio, l’applicazione della misura e del calcolo agli elementi naturali.
Come si sa, la matematica non fu certo teorizzata nel XVI secolo. Pitagora, Euclide, Eratostene e Ipparco di Nicea vissero molto tempo prima.
Fino a quel momento, però, essa apparteneva al mondo dell’astrattezza, quasi mai utilizzata nella vita quotidiana, e questo in virtù di un presupposto che dall’antica Grecia si protrasse fino al Rinascimento: il mondo terreno, la natura, la realtà della vita quotidiana era il «dominio del movente, dell’impreciso, del “più o meno”, del “pressappoco”» [1]. Un mondo quindi imperfetto che non avrebbe mai potuto trovare spiegazione attraverso la nobile scienza matematica.
Era dunque un problema di presupposti teorici: per millenni tale scienza non era considerata lo strumento corretto per studiare la natura, ed era proprio per questo motivo che era giudicata una conoscenza esatta, poiché si basava su linguaggi e forme intrinsecamente perfette che non venivano corrotte dalle cose mondane.
A tal proposito «Plutarco ci ha raccontato come Platone si adirò contro Archita e Eudosso che avevano intrapreso la soluzione di certi problemi geometrici, come quello della duplicazione del cubo, con l’aiuto di apparecchi meccanici: “poiché Platone si era corrucciato con loro dichiarando che essi corrompevano e guastavano la dignità e ciò che v’era d’eccellente nella geometria, col farla discendere dalle cose intellettive e incorporee alle cose sensibili e materiali, e col farle usare materia in cui bisogna impiegare troppo vilmente e troppo bassamente l’opera della mano”» [2].
Fino al Rinascimento, l’idea che la matematica, essendo perfetta, non potesse applicarsi coerentemente alla natura, fu un principio unanimemente riconosciuto. Ovviamente non mancarono le eccezioni, i casi in cui comunque si sfruttò tale scienza per cose mondane. Ma pur sempre con la consapevolezza che non si potesse addivenire a nessuna perfezione, che si stesse facendo in un certo senso “oltraggio” alla sua purezza. Per tale motivo rimasero appunto eccezioni.
Per secoli ciò che mancò fu l’idea stessa che in natura ci fosse qualcosa passibile di misura esatta.
Discorso diverso invece per il Cosmo. Questo, infatti, non coincidendo con la realtà empirica della vita quotidiana, era visto dagli antichi greci come qualcosa di perfetto. Per tale motivo su di esso era possibile applicare coerentemente la scienza matematica. Non mancarono, quindi, scienziati che eseguirono calcoli astronomici per “misurarlo”. «I cieli sono altra cosa dalla terra. E per questo l’astronomia matematica era possibile, ma la fisica matematica non lo era» [3].
Per avere una conferma storica di quel che si sta qui affermando, basta osservare il ruolo che ebbero artigiani e ingegneri dall’antichità classica fino alla rivoluzione scientifica. Questi non applicavano certo la scienza matematica alle loro opere. La loro arte era proprio quella di riuscire ad ottenere un oggetto od una macchina adeguata al suo scopo, ma andando per stima, “ad occhio e croce”.
Si rimane colpiti dal fatto che fino XVI e XVII secolo la struttura e il funzionamento delle macchine era descritto da i loro costruttori in modo approssimativo [4]. «Esse sono spesso descritte con le loro dimensioni reali, esattamente misurate. In compenso non sono mai calcolate»  [5].
Quest’ultimo punto ci permette di affrontare due questioni: a) la possibile previsione, grazie alle operazioni di misurazione calcolob) la trasformazione degli utensìli in strumenti.
 
a) Abbiamo già detto che il passaggio fondamentale dalla concezione antica a quella moderna di scienza riguarda proprio l’applicazione della matematica al mondo “sublunare”. Passaggio sancito dalla celebre affermazione di Galileo Galilei: «[la natura è come un libro] scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro labirinto.» [6].
In estrema sintesi, questo significa ritenere che ogni parte che compone la natura, ogni elemento in cui è possibile scomporla, è passibile di misura e che i rapporti tra i diversi elementi sono calcolabili.
Ora, se è possibile, ad esempio, misurare con precisione le proprietà fisiche di un tavolo di legno, sarà anche possibile calcolare qual è il peso massimo che potrà reggere senza rompersi. Si potrà quindi prevedere che superato tale limite il tavolo si romperà.
Ed è proprio qui che sta la grande portata rivoluzionaria della scienza moderna. Non è più necessario disporre di un gran numero di osservazione della realtà quotidiana per ritenere che vi sia una ragionevole possibilità che l’evento che ci si aspetta si ripeta. Basterà calcolare le diverse variabili in gioco e creare un caso sperimentale dove si tengano sotto controllo le diverse variabili. Se le conoscenze sono corrette e i calcoli sono esatti, si avrà la certezza del risultato che potrà essere così ripetuto.
Qui sorge la capacità predittiva della scienza che le ha permesso di affascinare l’umanità tutta.
b) Ma l’applicazione della matematica alla natura porta ad un altro importante cambiamento: la progressiva sostituzione (a livello scientifico prima, industriale poi) degli utensìli con gli strumenti. La differenza fra questi è prima di tutto concettuale e poi materiale. L’utensìle è un oggetto che funge da “prolungamento” della propria mano. Rappresenta l’adattamento alla realtà e non inventa funzioni diverse da quelle che l’uomo non può conoscere altrimenti. L’utensìle è strettamente legato alla realtà concreta e quotidiana, amplificando le possibilità di azione dell’uomo.
Lo strumento, viceversa, è proprio ciò che permette all’uomo di andare oltre i propri sensi, oltre la realtà sensibile. È pura materializzazione del pensiero che cerca di scoprire cosa c’è al di là del percepito. Non è l’estensione della propria mano. Esso permette cose che l’uomo non potrebbe mai fare senza quello strumento.
L’esempio più chiaro di quel che si sta dicendo può essere individuato nella costruzione del telescopio da parte di Galileo Galilei.
Da un punto di vista meramente tecnico, Galileo ha semplicemente affinato quelli che possiamo ritenere degli utensili, ovvero i cannocchiali olandesi. Essi infatti, per come erano utilizzati, rappresentavano una semplice estensione delle facoltà visive dell’uomo. Permettevano di vedere lontano, ma quel che si osservava poteva comunque essere visto in qualsiasi altro modo e da chiunque altro.
La portata rivoluzionaria, quindi, non fu tanto l’aver migliorato un oggetto, ma l’idea che si ebbe di volgerlo verso il cielo piuttosto che verso la terra, così da poter osservare (e perciò conoscere) cose che l’uomo non avrebbe potuto mai osservare affidandosi solo alle proprie capacità sensoriali.
Lo stesso discorso fatto per il telescopio vale anche per il microscopio. Non è necessario abbandonare la terra, ma voler osservare ciò che si cela ai nostri sensi e alle nostre percezioni.
Lo strumento, dunque, è in primis concetto, poi è materia. È la rappresentazione dell’aspirazione umana di voler trascendere la realtà.
L’applicazione della matematica alla natura; la possibilità di misura, calcolo e quindi di previsione; la possibilità di definire precisamente i rapporti di causa-effetto; l’invenzione di nuovi strumenti che permettono di conoscere (e quindi misurare e calcolare) ciò che prima era ignoto; tutto ciò fu alla base della rivoluzione scientifica per come la conosciamo.
Ma ciò che le conferì il successo per l’umanità intera fu l’applicazione nella realtà quotidiana, contribuendo al miglioramento della vita.
Fu grazie ai punti precedentemente elencati che si arrivò alla Prima Rivoluzione Industriale, alle scoperte in ambito medico, fisico, ecc.

Critica ai presupposti delle scienze sociali

Cos’è dunque la scienza moderna? Possiamo rispondere a questa domanda affermando che la scienza moderna è tale se è possibile applicare all’oggetto di studio la matematica e le sue operazioni, poiché solo così è possibile determinare con precisione i rapporti tra oggetti e/o elementi (causa-effetto, interazione ecc.)
È possibile misurare e calcolare le proprietà dei gas nelle stelle, le proprietà biochimiche negli esseri viventi, quelle delle forze di gravitazione e di accelerazione dei diversi corpi e così via.
In questi casi gli “oggetti” sono perfettamente conoscibili tramite quel linguaggio formale, intrinsecamente rigoroso, chiamato matematica. Questo conferisce scientificità ai risultati e prevedibilità agli eventi.
È una verità semplice, ma a quanto pare dimenticata da molti.
Il problema delle altre discipline nasce proprio dal desiderio di raggiungere lo stesso grado di rigore nel metodo e di successo nei risultati.
Chiariamo subito che chi scrive non è uno scientista esaltato. La questione è un’altra e riguarda l’associazione tra la parola scienza e la conoscenza.
Sembra ormai che nel dibattito odierno il significato della seconda si esaurisca nella prima. Come se la conoscenza, per essere tale, debba per forza rientrare nell’alveo delle scienze.
A partire dal XIX secolo, questa convinzione ha spinto tutte le discipline che non appartenevano alle scienze della natura a ricercare criteri metodologici ed epistemologici, sperando di assurgere al rango di scienze.
Se all’inizio fu un nobile intento di migliorare i criteri di rigorosità dei diversi ambiti disciplinari, col passare degli anni prese la forma di una rincorsa al riconoscimento. L’ambizione di poter fregiarsi del titolo di scienza come il prof. di fisica dell’ufficio accanto. Un titolo necessario a giustificare l’insegnamento nell’accademia – e da lì, facendo ripiombare la legittimità acquisita verso il basso – in un mondo in cui, per il senso comune, una conoscenza che non è scientifica, non è conoscenza.
Tale processo storico ha portato quindi alla coniazione dei termini “scienze umane” e “scienze sociali“.
Locuzioni che provocano spesso ilarità in coloro che si occupano di vera scienza e che vedono tale concetto violentato dalla logica.
Potremmo astrarre tre casistiche diverse che si presentato in questi ambiti:
 
  1. Quelle discipline che non si curano di applicare la matematica al proprio ambito ma che ritengono che la scientificità venga loro conferita dalla presenza di una cospicua letteratura, da numerose teorie e in generale dalla rigorosità di argomentazioni messe al vaglio da altri esperti del settore (la celeberrima peer review). Se poi ogni tanto possono usufruire del contributo di altre scienze, così da poter agitare in bella vista qualche numero a suffragare le loro argomentazioni, ancora meglio.
  2. Quelle discipline che, oltre a disporre anch’esse di una folta letteratura alle spalle, pretendono di sfruttare la matematica per misurare dei concetti e dei costrutti, convinti che la misurazione conferisca di per sé scientificità alla disciplina.
  3. Infine abbiamo il caso specifico dell’economia [7], che è un ibrido. In questo caso la matematica è coerentemente applicata, ma a differenza delle scienze della natura, qui la variazione non dipende da proprietà di un corpo inanimato e, perciò, perfettamente misurabile e calcolabile. Essa invece dipende dall’uomo il quale, essendo dotato di coscienza e intenzionalità, e non rispondendo al semplice principio di azione e reazione, difficilmente può essere previsto. Per cui l’economia è capace di misurare lo status quo, il corpo immobile, ma è molto meno capace di fare previsioni poiché le variabili in gioco dipendono da un soggetto poco prevedibile.
Ciò che accomuna tutti e tre i casi e che impedisce loro di godere della scientificità delle scienze della natura è proprio l’uomo. Questo è infatti l’oggetto di studio più complicato. La sua costituzione fisica rientra nello studio delle scienze, ma quando si parla di comportamento si viene sommersi da una moltitudine di concetti e costrutti che non hanno nulla di scientifico: atteggiamenti, emozioni, intenzionalità, coscienza ecc. Sono termini utili a comprendersi, a capire all’incirca di cosa si sta parlando. Ma se si sfogliano testi di sociologia e psicologia, si vedrà che questi sono differentemente definiti in base alle teorie di riferimento. 
E come potrebbe essere altrimenti? Sono parole che non hanno un corrispettivo empirico. Un atteggiamento che oggi è considerato aggressivo, meno di un secolo fa non lo era. E non perché nel frattempo vi è stata una qualche scoperta, ma semplicemente perché è cambiato il contesto socio-culturale.
Come può essere considerata scienza una disciplina i cui oggetti di studio mutano forma in base a chi li definisce, e costui cambia idea in base al luogo e al tempo in cui si trova?
Per cercare di ovviare a tale problema, in molti casi si è ricorsi all’uso della matematica: si è iniziato a misurare le emozioni e gli atteggiamenti dopo aver creato delle scale di misura del tutto soggettive (innumerevoli, e una diversa dall’altra). I punteggi dovevano essere rilevati dal ricercatore necessariamente sulla base di quanto espresso (dichiarato) dal soggetto interessato. In base alla risposta del soggetto si definiva il punteggio. Non è necessario spiegare gli innumerevoli limiti della sostituzione dell’osservazione soggetto-oggetto con la dichiarazione oggetto-soggetto.
Il metodo e gli strumenti utilizzati nella ricerca devono essere coerenti con l’oggetto che si studia. Non si può pretendere di usare la matematica a sproposito, convinti che il suo utilizzo conferisca in ogni caso scientificità al tutto. La misurazione e il calcolo, per essere coerenti ed efficaci, devono descrivere esattamente ciò che si prefiggono di descrivere. I loro risultati non possono variare in base all’intenzionalità, la coscienza, le emozioni o qualsivoglia variabile non mappabile che non sia intrinseca all’oggetto stesso. La composizione di un gas, una volta misurata, quella è, e se varia lo farà sulla base di cause accertabili e a loro volta misurabili e calcolabili.
Troppo spesso il metodo sperimentale è stata la foglia di fico per le “scienze” sociali tramite la quale nascondere la propria inconsistenza scientifica.
Esso infatti è il metodo tramite la quale la scienza della natura è progredita, andando a scovare leggi e teorie che guidano il processo di sviluppo della natura stessa.
Tuttavia ciò che vale per la matematica, vale anche per il metodo sperimentale. Non è questo di per sé che conferisce scientificità al tutto, ma il fatto che sia appropriato a studiare l’oggetto che si intende conoscere.

Superare il complesso di inferiorità

Oggi la pretesa di scientificità sbandierata dalla discipline sociali serve a superare il complesso di inferiorità verso le scienze della natura e a definire i perimetri del proprio ambito, così da poter erigere muri per evitare invasioni di campo e potersi accreditare come esperti. Uno spettacolo imbarazzante che va avanti da anni e che ha portato alla costruzione di macchine accademiche dedite alla spasmodica produzione di “paper” il cui scopo non è tanto quello di accrescere la conoscenza, ma di moltiplicarne il numero (per il bene del singolo ricercatore, del professore, del dipartimento e per quello dell’ambito disciplinare).
È necessario accettare che non tutte le conoscenze possono essere scientifiche e non per questo non sono degne di essere studiate. Molti dei metodi descritti precedentemente non conferiscono scientificità alla disciplina ma possono essere ugualmente utili ad aumentare la rigorosità interna.
Bisogna prendere atto che se si vuole studiare l’uomo nelle sue componenti non anatomiche, è necessario rinunciare alla pretesa scientifica. Percorrere questa strada, oltre a non portare all’obiettivo desiderato, ha danneggiato la logica stessa.
Liberarsi di tale complesso di inferiorità potrebbe avere paradossalmente l’effetto che non ci si aspetta: riportando la logica appropriata nel proprio ambito, comprendendo pienamente (ed accettando per quel che è)  l’oggetto di studio, si potranno scovare metodi e strumenti di indagine realmente coerenti, tali da conferire maggior rigore al quadro teorico, anche se non scientifico.
Continuando invece a ricercare in maniera spasmodica la certificazione scientifica, intestardendosi nella ricerca di principi scientifici e nell’uso di metodi pseudo-scientifici, si avrà l’effetto di blindare la logica alla para-logica e di produrre una quantità enorme di ricerche inutili, così come le pseudo-conoscenze prodotte.

[1] A. Koyré, Dal mondo del pressappoco all’universo della precisione, Einaudi, Torino, 1967, tratto da: Etudes d’histoire de la pensée philosophique, Armand Colin, 1961, p. 90.

[2] Ivi., 65.

[3] Ivi., 91.

[4] Cfr., Th. Beck, Beiträge zur geschichte des Maschinenbaus, Berlin, 1900.

[5] A. Koyré, op. cit., p. 95.

[6] G. Galilei, Il Saggiatore, in Le Opere, Edizione nazionale, Firenze, G. Barbera, 1896, vol. VI, p. 33.

[7] La questione dell’economia è un caso a sé stante che meriterebbe di essere trattato separatamente. In essa, infatti, l’oggetto di studio non è qualcosa di totalmente astratto ed opinabile (come un costrutto), ma nemmeno qualcosa perfettamente ed inconfutabilmente misurabile e calcolabile come un oggetto empirico. Il suo oggetto è Il denaro, che rappresenta la concretizzazione di un concetto astratto (lo scambio), che si riversa nella realtà di un oggetto empirico (la moneta) di valore astratto (il prezzo). Attorno a questi concetti ruotano tutti gli altri: PIL, produttività, l’inflazione, disoccupazione ecc. Indicatori ben definiti e quindi misurabili, ma sulla base dei quali fare previsioni, per quanto necessario, diventa assai complicato, visto che il loro variare non dipende da caratteristiche intrinseche ad un oggetto determinato, ma dall’uomo, le cui azioni determinano la variazione.