Intelligence e interesse nazionale

Intelligence
Le relazioni dell’intelligence devono essere maneggiate con cura. Molte sono le informazioni in esse contenute e tante altre quelle ovviamente celate al pubblico. E di ciò che vien detto, molto non è in forma esplicita ma è necessario coglierlo tra le righe.
Prima di immergersi in un documento di tale portata, è necessario capire cosa cercare e cosa, invece, è inutile sperare di trovare.
 
Il valore inestimabile della relazione annuale dei servizi di informazione risiede nella sua capacità di svelare il punto di vista dello Stato, spogliato della retorica e dell’ideologia che avvolgono le dichiarazioni dei decisori politici.  L’Intelligence non fornisce solo informazioni, ma soprattutto interpretazioni della realtà sulla quale si basano le decisioni che la politica dovrà prendere: vi è sempre, infatti, oltre ad un aspetto puramente descrittivo, anche quello interpretativo il quale definisce, in base ai dati raccolti (e quindi anche alle descrizioni dei fatti), quali siano i principali rischi per la sicurezza nazionale.
Leggendo la relazione, dunque, si può capire qual è il punto di vista di alcuni degli apparati più importanti dello Stato.
Questi, è bene ricordarlo, prescindono quasi totalmente dalla politica. Non cambiano ogni cinque anni come i membri del parlamento. Rappresentano l’aspetto più stabile degli organi di uno Stato, garantendo una continuità alla politica nazionale in chiave geopolitica.
 
Naturalmente, non possiamo aspettarci che l’intelligence renda pubblico in una simile relazione quanto deve necessariamente essere riservato. Tuttavia, ci aspettiamo che da tale relazione emergano più chiaramente gli interessi nazionali che si prefiggono di proteggere (troppo spesso obnubilati ai cittadini dalla cronaca politica), i vincoli e gli imperativi strategici. Poiché è in base a questi che si potranno riconoscere i rischi alla propria sicurezza e i soggetti che la minacciano. Magari non in forma esplicita, ma è questo che deve emergere, pur leggendo “tra le righe”.
La definizione dei propri interessi è l’aspetto centrale e imprescindibile di una Nazione che vuole porsi come soggetto internazionale e non come mero oggetto. La differenza sostanziale tra soggetto e oggetto è molto semplice: il primo agisce, mentre il secondo subisce l’azione altrui.
 
Chi definisce, quindi, qual è l’interesse nazionale? Non vi è certo una legge che imponga che tale onere ricada su un organo specifico (per fortuna!).
In linea teorica, dovrebbe essere la politica ad incaricarsi di tale compito. Tuttavia, essa pare costantemente impegnata nel disbrigo degli affari correnti. Troppo indaffarata con beghe politiche tra partiti (e di partito).
Oltre a ciò, è assai più arduo che la classe politica possa mantenere una ferma convinzione di cosa sia l’interesse generale della nazione se ogni cinque anni cambiano i soggetti che la compongono e l’orientamento politico del governo.
Per questo motivo, come accade in altre nazioni, sono spesso altri organi dello Stato che definiscono gli interessi nazionali e che sottopongono (o impongono) la loro visione alla politica: ministeri, forze armate, servizi di intelligence. Apparati che spesso hanno visioni diverse.
Un esempio su tutti sono gli Stati Uniti. Non è certo un segreto che il Pentagono, il Dipartimento di Stato, CIA, NSA ecc., siano gli enti principali che definiscono gli interessi nazionali statunitensi e le diverse modalità per perseguirli. Ma come negli Stati Uniti, così funziona in gran parte dei paesi del Mondo.
 
In virtù di tale premessa, non possiamo che essere rimasti delusi dalla lettura della relazione in oggetto.
Dei tre capitoli (Scenari geostrategici; Il mondo in trasformazione; La sicurezza nazionale), il primo è quello puramente descrittivo e sul quale non vi è nulla da eccepire – in esso, infatti, viene enunciato lo stato dell’arte del contesto internazionale, affrontando i principali quadranti geostrategici di crisi attraverso la chiave di lettura delle ormai evidenti rivalità globali.
L’attenzione, invece, si sofferma sul secondo e sul terzo capitolo, nei quali ci si aspetterebbe di leggere (o di dedurre) importanti riferimenti ai cambiamenti epocali in corso, al ruolo dei principali soggetti statuali con i quali il nostro paese deve relazionarsi, ai nostri interessi nazionali e alle relative minacce.
 
Già dai titoli dei paragrafi si evince come i due capitoli siano strettamente legati da un punto di vista concettuale: (2) La “nuova” globalizzazione e (3) La sicurezza economico-finanziaria; (2) Le migrazioni e (3) Lo sfruttamento criminale dell’immigrazione regolare; (2) Il fattore climatico e (3) La sicurezza ambientale; (2) Il jihad globale e (3) La minaccia jihadista in Europa e in Italia; (2) Le nuove frontiere della tecnologia e (3) La sicurezza cibernetica e la minaccia ibrida. Fanno eccezione solamente due capitoli: “Energia e materie prime” del secondo capitolo e “La minaccia interna” del terzo capitolo – evidentemente la questione energetica è vista come in mutamento, ma non è percepita come minacciosa, e la continua focalizzazione sui movimenti anarchici insurrezionalisti come principale minaccia interna non ha di certo nulla di nuovo.
 
Da tale associazione si evince un approccio sovrastrutturale alle questioni internazionali e di sicurezza. Se la quasi totalità delle minacce vengono collegate al mondo in trasformazione, questo può voler dire solo due cose: (a) prima di questi cambiamenti i nostri interessi nazionali erano in una botte di ferro e le minacce alla nostra sicurezza nazionale pressocché nulle; (b) non si riesce a distanziarsi dalla contingenza e quindi incapaci di individuare i propri interessi nazionali – i quali, essendo elementi sostanziali, rimangono ben più stabili nel tempo.
Ci sentiamo di propendere (ahinoi!) per la seconda ipotesi.
 
Abbiamo parlato di approccio “sovrastrutturale” poiché dai punti messi in luce in questi due capitoli si ha la sensazione che vi siano fenomeni in corso senza soggetti ben definiti. Oppure, quando lo sono, si tratta di attori non statuali: anarchici, jihadisti, criminalità organizzata.
La questione appare ancora più strana alla luce di quanto invece descritto nel primo capitolo, in cui il riferimento ai principali soggetti nazionali è espressa necessariamente a chiare lettere.
Tale approccio poteva essere comprensibile (seppur non condivisibile) fino a qualche anno fa. Oggi invece, i soggetti nazionali hanno squarciato il velo delle apparenze – che li voleva semplici amministratori – imponendo il loro peso sostanziale e il ruolo determinante nel “fare la storia”.
Tra guerre, rivalità e alleanze, la loro ineluttabile capacità di plasmare il mondo è oggi ormai sotto gli occhi di tutti.
Per questo motivo non si può che rimaner sorpresi dal pochissimo rilievo dato al ruolo degli Stati nazionali, i quali appaiono più come elementi di cornice che subiscono fenomeni senza soggetti.
 
Tra gli elementi principali sui quali si fa perno nella relazione, la questione economica la fa da padrona, a sottolineare come la natura economicistica dell’homo italicus sia difficile da cambiare anche in tempi tormentati come questi.
Ancor più sorprendente è il fatto che quanto vien descritto nel secondo e terzo capitolo appaia quasi scollegato da quanto espresso nel primo. Come se i grandi cambiamenti in corso e i problemi di sicurezza nazionale non dipendessero strettamente dall’acuirsi della rivalità tra Occidente e Cina, Russia, Iran e Corea del Nord.
Mancando tale elemento fondamentale, ne consegue l’assenza di riferimenti alle ricadute determinanti per il nostro paese: una ridefinizione dei rapporti commerciali (ridotti al minimo con Russia e Iran, in fase di “de-risking” con la Cina) e soprattutto dei rapporti diplomatici con i paesi rivali (termine del tutto assente in riferimento al nostro paese); i cambiamenti in corso nel sistema di alleanze (intra-occidentali ed extra-occidentali); l’inevitabile coinvolgimento nei conflitti, da quelli indiretti (fornitura di armamenti a paesi “alleati” in conflitto) a quelli diretti (missioni navali nello stretto di Bāb el-Mandeb) e le conseguenti ricadute sulla sicurezza nazionale; l’estendersi della rivalità tra i blocchi in settori di nostro primario interesse, come il nord Africa (Libia in testa) e nel Sahel, o come in Medio Oriente e nel Mar Rosso.
 
Ecco dunque che, tenendo slegate le cause dagli effetti, quest’ultimi appaiono come elementi autodeterminatisi.
Le cause prossime surclassano le remote e così, ad esempio, si pone l’attenzione sulla criminalità organizzata che sfrutta l’immigrazione illegale e non sui paesi che chiudono entrambi gli occhi su tale fenomeno (nella migliore delle ipotesi), permettendo che questo proceda senza troppi intoppi, poiché nel loro interesse avere una simile arma di ricatto verso altri paesi.
 
La questione però che più ci preme sottolineare riguarda i “grandi assenti” dal capitolo “La sicurezza nazionale”.
È davvero sorprendente che non si sia trovato spazio per trattare in maniera approfondita il problema della sicurezza marittima e di quella dei due più importanti teatri per la nostra sicurezza nazionale: la Libia e i Balcani – la cosa interessante è che queste due aree sono state trattate nel primo capitolo (inevitabilmente), ma ignorate nel terzo, quasi non fossero sufficientemente rilevanti per la sicurezza nazionale.
Essendo una penisola in mezzo al Mediterraneo con circa ottomila chilometri di coste, dalla sicurezza marittima dipende la nostra stessa sopravvivenza e considerando la penetrazione russa in Libia (dove da qualche settimana girano voci sulla possibile apertura di una base navale russa a Tobruk) e nei Balcani, ma anche di quella turca nei medesimi territori (Turchia, alleato sui generis, con interessi spesso opposti ai nostri), tali scenari acquisiscono ancor più importanza e con loro la centralità di una efficiente strategia marittima.
Siamo un paese marittimo, connesso al mondo tramite le acque. Tramite queste possiamo proiettare forza o subire minacce. La posizione centrale nel Mediterraneo ci pone come crocevia fondamentale che connette l’Atlantico all’Indopacifico. Come possiamo continuare a non dare importanza a tutto ciò?
 
Ad alcuni, forse, potrebbe sorgere il dubbio che la relazione in oggetto non sia il luogo dove esprimere tali concetti. Eppure, sfogliando relazioni simili provenienti, ad esempio, da Stati Uniti e Turchia, emergono chiaramente i riferimenti alle aree strategiche di primario interesse, ai propri interessi nazionali e ai possibili soggetti statuali che si pongono come ostacolo al perseguimento dei propri interessi.
Nella relazione dei servizi turchi (Millî İstihbarat Teşkilatı, MIT) si fa espressamente riferimento alla Libia, la Siria, l’Ucraina e il Caucaso come le aree cruciale per i propri interessi strategici e alle azioni messe in atto (e da mettere in atto) per salvaguardare la propria posizione.
Nella relazione statunitense i primi capitoli prendono addirittura il nome dai principali rivali degli Stati Uniti: Cina, Russia, Iran, Corea del Nord (probabilmente anche in ordine di importanza).
Non vi è quindi ambiguità, ma schiettezza nel definire le priorità del proprio paese.
 
La domanda, dunque, sorge spontanea: perché nella relazione dei servizi d’intelligence italiani ciò non avviene? Perché non si riesce ad intravedere (anche in chiaro-scuro) quali siano i propri interessi nazionali, le aree geografiche nelle quali si collocano e le principali minacce che incontrano? Perché sembra mancare una visione d’insieme dei cambiamenti in corso, spesso trattati, al contrario, come eventi separati?
O si sa ma non si vuole dire, oppure si ignora e dunque non si può dire.
Probabilmente la risposta è un mix tra le due. Vi è infatti una tendenza generale (degli organi dello Stato) a creare una narrazione confortevole e rassicurante verso l’opinione pubblica, per evitare che questa si allarmi per le crisi in corso – emblematiche a riguardo le recenti dichiarazioni sull’abbattimento di due droni Houthi da parte del cacciatorpediniere Duilio dove, per giustificare tale azione agli occhi di una popolazione timorosa, si continua ad appellarsi al principio di “autodifesa“, come se la difesa delle tratte commerciali non fosse una motivazione sufficiente.
Ma vi è anche, a nostro avviso, un problema molto più serio che riguarda l’incapacità, tutta italiana, di definire chiaramente il proprio interesse nazionale.
Ci siamo abituati per troppo tempo, infatti, a vivere in un sogno. Digiuni di pura strategia poiché in mano all’alleato d’oltre oceano, ci siamo felicemente appiattiti sull’economia, convinti che in essa si esaurisse ogni interesse.
Un’alienazione che non desideriamo abbandonare, impauriti dall’idea di dover andare incontro a rischi e sacrifici per salvaguardare noi stessi.
Definire i propri interessi nazionali è infatti qualcosa che richiede coraggio poiché, una volta individuati, non ci si può nascondere dai pericoli insiti nel perseguirli. Si è costretti a chiamare “nemico” chi li minaccia e ad usare la forza quando è necessario.
Avere bene chiari quali siano i propri interessi serve per trattare coi rivali e con gli alleati, per sapere cosa chiedere e cosa offrire.
In Italia però si è deciso di non decidere. Si preferisce fare il pesce in barile, recitando la parte dell’oggetto invece del soggetto, accodandosi a paesi ben più rilevanti con la speranza di raccogliere le briciole.
 
Se, dunque, uno dei pregi della relazione annuale dei servizi di informazione è quello di esprime il punto di vista dello Stato, allora trova conferma un diffuso sospetto: l’Italia continua a brancolare nel buio, non avendo un’idea chiara di quali siano i propri interessi nazionali.

(Questo articolo è stato precedentemente pubblicato su Dissipatio)