Senza dolore si perpetua l’uguale

Senza dolore si perpetua l'uguale
 
Innumerevoli sono ormai le vittime mietute dal postmodernismo. Patologia della modernità, di una società occidentale abituata a non soffrire più il duro contatto col concreto. Sviluppo inevitabile del quale non si può addossar la colpa ai suoi teorici, probabilmente ignari delle conseguenze che avrebbero dischiuso.
A suon di mediazione dei rapporti abbiamo perso il contatto diretto con la realtà. Abbiamo erto un muro sul quale proiettiamo il mondo per come lo desideriamo.
Il postmodernismo è filosofia da torre d’avorio per eccellenza. Postulando la non verità della realtà, legittima sé stessa a disinteressarsene.
Non tocca per terra, è in perenne lievitazione. È un trucco. Solletica le menti annoiate che per loro fortuna non soffrono la vita. Funge da analgesico per coloro che si auto-infliggono dolore per poter dire di patirne ancora, e poi subito estirparlo.
Il valore simbolico erto a verità soggettiva incontestabile. Sazia le menti, consola i cuori. Ognuno è libero di crearsi la sua verità poiché anche questa, come la realtà, è ormai divenuta un mero costrutto sociale.
Verità e realtà soggettivate però, per essere rifugio, richiedono rispetto. La condizione per poter essere soddisfatti del proprio mondo è che gli altri ci assecondino. Approvazione e riconoscimento non possono essere aggirati.
Così, una pluralità di mondi diversi sono prescritti a riconoscersi validi gli uni con gli altri, seppur in contraddizione. Riconoscimento che non concilia, ma divide. Stratagemma per rimaner sempre uguali a sé stessi.
Un tempo ad essere assecondati erano i pazzi (pardon, “affetti da disturbi mentali”), poiché impossibile pretendere ti riportarli a ragione tramite il confronto. Oggi ad essere assecondati siamo tutti noi, inebriati dal saperci legittimati a rimaner chiusi nelle nostre convinzioni.
 
Questa patologia teorica si è diffusa a macchia d’olio in tutto l’occidente.
Se ognuno di noi costruisce la propria realtà, chi mai vi includerebbe il dolore?
Nessuno, perché la stessa esigenza di creare una propria realtà nasce dal bisogno di estirpare la sofferenza dalla nostra vita.
Ecco dunque che la vittima principale è proprio il dolore, nelle sue forme più variegate. “Il dolore viene respinto ai margini per far spazio ad un benessere mediocre” (Ernst Jünger)
L’algofobia – di cui parla Byung-chul Han nel suo “La società senza dolore” – è indissolubilmente legata alla costruzione soggettiva della propria realtà.
Questo rintanarsi nelle proprie convinzioni diviene una giustificazione teorica all’incapacità di affrontare il mondo. L’aggiramento del dolore è il principio guida.
Tale approccio è instillato fin dall’infanzia, da genitori iperprotettivi che creano intorno ai loro figli una barriera di sicurezza, privandoli delle inevitabili esperienze fallimentari e dei contraccolpi. Si cresce convinti che il dolore sia un ostacolo aggirabile, un diritto non subirlo, rendendoci incapaci di affrontarlo.
 
Dall’individuo, questa patologia si riversa nella società.
Una delle sue più note manifestazioni è il rifiuto del confronto.
Che si vada alla ricerca di coloro che condividono la nostra stessa posizione, è più che normale. Meno, che in una società si cerchi di scongiurare un qualsiasi confronto degno di questo nome. Un confronto che implichi l’ascolto, lo scontro e il tentativo di superare le nostre contraddizioni.
Invece ogni voce dissonante è vista come minaccia e, perciostesso, rifiutata ed ostacolata.
Ci si scontra in TV per far spettacolo – dove più che di confronto si dovrebbe parlare di cabaret – mentre altrove, dove si potrebbe avere un dibattito proficuo, si dialoga con chi di solito è già d’accordo.
 
All’incapacità di affrontare il dolore, ne consegue la necessità di sottrarre alla sfera dell’umano la comune gestione dei rapporti sociali.
Incapaci di gestire rifiuti, insulti, litigi, fallimenti e schernimenti, abbiamo abdicato alla nostra libertà in favore di norme che disciplinano ciò che da sempre è stato (a giusto titolo) nelle nostre mani. Patrimonio culturale del vivere in comunità, norme implicite del senso comune.
Oggi, al contrario, ogni cosa è da dirimere per via normativa o giudiziaria. Segno di inadeguatezza e debolezza.
Pretendiamo dallo Stato che elimini ogni ostacolo dal nostro cammino.
 
Quello Stato che un tempo limitava la sua interferenza nell’ambito personale solo a questioni di un certa gravità, è chiamato ora ad agire anche per le cose più sciocche, spinto dalla pressione di una cittadinanza che dipende ormai da un’autorità regolatrice anche per i dettagli più insignificanti della vita quotidiana.
È la trasformazione dello Stato di diritto nella società dei diritti. Il passaggio dal singolare al plurale evidenzia lo scivolamento di un concetto unitario nella molteplicità delle rivendicazioni individuali.
 
L’estremizzazione della società dei diritti – dove persino la mancanza di rispetto viene sottratta dalla libera gestione umana e calata in ambito psicologico e normativo – non è altro che un modo per cercare di bandire qualsiasi forma di dolore dalla società. Non si tratta di ottenere la parità di diritti (quella fortunatamente si è già ottenuta da tempo, checché ne dicano coloro che ancora non hanno capito che l’uguaglianza si misura alla partenza e non all’arrivo), ma di cercare di disciplinare qualsiasi forma di comportamento umano in modo tale che nessuno possa sentirsi ferito dagli atteggiamenti e dalle parole altrui.
È in questo perimetro che ricade il virus del politically correct.
Ovviamente non intendiamo affermare che insultare il prossimo sia un fatto da elogiare. La questione è che ci sono aspetti della vita umana che non devono essere regolamentati dalla legge ma gestiti liberamente dalle persone. Non possiamo diventare una società della regolamentazione totale.
Una società siffatta è puerile e bigotta. Non lascia spazio di crescita e cambiamento, trasformando la libertà in libero arbitrio.
Mentre il primo è un concetto assoluto che si pone come obbiettivo da perseguire per un soggetto statuale, il secondo pertiene alla contingenza, esaurendo il suo significato all’indomani del suo pronunciamento, inadatto dunque a porsi a livello collettivo data la sua specificità ed esauribilità.
Se nel primo caso all’obiettivo seguono azioni atte a perseguirlo, implicando così una pluralità di prospettive, nel secondo, a causa della sua peculiarità, pensiero e azione tenderebbero a coincidere. Ciò implica che uno Stato che si ponga nel primo caso potrà garantire la libertà; viceversa, qualora si ponesse nel secondo caso, l’azione mirata al perseguimento dell’obiettivo specifico si trasformerebbe istantaneamente in una limitazione della libertà medesima. Non si potrebbe garantire la libertà in sé e per sé, poiché il perseguimento di una norma siffatta ad un tempo offrirebbe e toglierebbe libertà, e avrebbe vita così breve da non essere degna di assurgere ad obiettivo collettivo. Di fatto, potrebbe offrire solo un recinto individuale all’interno del quale ognuno può bearsi del proprio libero arbitrio, a patto di non oltrepassare quel recinto.
Ci si cela, quindi, dietro la parola “diritti”, quando si dovrebbe parlare più propriamente di una regolamentazione totalitaria travestita da “diritti”, la quale limita la vera libertà individuale e promuove la costrizione entro recinti personali, dove si esercita un illusorio libero arbitrio soggetto a rigide limitazioni imposte dall’autorità statale.
 
Si configura così una società nella quale si crede di poter bandire l’odio tramite leggi e “regole della community”. In verità, però, si continua a mettere la polvere sotto al tappeto. L’uomo non può negare la sua stessa natura, fatta di sentimenti contrastanti, tra cui l’odio e il dolore.
Dolore che spesso viene espiato tramite l’odio, ma che se represso rischia di esplodere in forme ben peggiori dell’insulto.
La società patologica dei diritti non è altro che una perenne fuga dal dolore.
 
Data la nostra storia, il dolore viene rintracciato principalmente nella diversità rispetto all’ordinario. Alterità che un tempo veniva fortemente discriminata, poiché si vedeva la deviazione dal comune sentire come minaccia – comportamento che, per quanto deplorevole, pare sia un tratto inestirpabile della psicologia dei gruppi.
Per eliminare tale sofferenza – conformemente alla concezione secondo la quale ogni nostra rappresentazione può essere indipendente dalla realtà concreta – si è scelta la strada più breve: negare ciò che ci accomuna e affermare ciò che ci distingue. Sciogliere l’unità nella pluralità (individuale) e bollare l’ordinario come trivialità del passato. Così, ogni eccezione diviene canone, ogni mondo individuale la regola. Soluzione che impone ad ognuno di noi di sostituire l’immediata percezione (dell’altro) con un atto di fede.
 
Quisque exceptione fit lex, omnis vita singularis regula est, a prescindere dalla rilevanza statistica della propria posizione o condizione.
Per scongiurare il dominio della maggioranza (e quindi il dolore nel sapersi minoranza), abbiamo decostruito la società, bandito ciò che di concreto ci accumuna, ed erto astratti principi ad unico denominatore. Principi il cui ritornello ripete inesorabilmente che ognuno di noi è un nucleo a sé stante.
Si rompe in questo modo il legame tra narrazione e realtà. Iniziamo a raccontare il mondo per come lo desideriamo e non per quel che é in verità.
La fuga dal dolore diventa la lotta per ogni singola eccezione dal comune sentire per instaurare una società di bolle protettive che, oltre a proteggere dai rischi del dolore, ci separano l’uno dall’altro.
Perché questa società senza dolore (non del benessere) si protragga, è necessario aumentare sempre più lo spazio tra le persone, poiché in queste si rintraccia l’origine della propria sofferenza. Il riconoscimento dell’altro (per come egli vuole essere percepito) viene iscritto tra i doveri morali, ma quando tale percezione cozza con la realtà dei fatti, si incorre nel rischio che chi debba riconoscere non lo faccia. Bisogna quindi scongiurare tale evenienza.
 
Negli ultimi decenni ci siamo lasciati alle spalle il potere della punizione, abbracciando il potere del non-dolore e della compiacenza.
Lungi da noi elogiare un sistema che includeva punizione e repressione, non possiamo però sottrarci dall’evidenziare le enormi ricadute di un cambio epocale come quello appena accennato.
Quando parliamo di punizione e repressione non ci riferiamo esclusivamente ad un sistema istituzionale (come dittature e totalitarismi) ma piuttosto a quello culturale, il quale è spesso trasversale rispetto al primo.
Un tempo si era profondamente convinti della funzione educativa del dolore. Esso obbligava l’uomo a fare i conti con gli effetti delle proprie azioni. Era funzionale a correggere quei comportamenti considerati errati in una certa epoca.
Piuttosto che proteggere paranoicamente i propri figli, li si esponeva ai rischi della vita per stimolarne le capacità di superamento.
Impossibile rimanere uguali di fronte al dolore. Era necessario cambiare sé stessi o il mondo circostante.
Una società quindi del conflitto, certo, ma anche del totalmente altro. Del progresso e del cambiamento, poiché solo affrontando il dolore sorge il conflitto (contro sé stessi e contro il mondo) e solo dal conflitto può emergere una realtà che superi le divergenze, creando qualcosa di nuovo.
 
Oggi, invece, si è passati dall’estremo punitivo a quello della compiacenza e della tolleranza (fuorché del dolore).
Ogni forma di potere cerca di mantenere il sistema che controlla uguale a sé stesso, è ovvio. Tuttavia, la struttura culturale del primo aveva in sé il germe del conflitto che, se da un lato alimentava il progresso, dall’altro rischiava di essere travolto dal cambiamento.
Quello odierno, al contrario, ha progressivamente eliminato dalle nostre vite ogni forma di vero conflitto. Dalla sfera individuale a quella collettiva, si cerca di estirpare qualsiasi forma di dolore dalle nostre vite. Eliminando il conflitto, la società contemporanea può aspirare ad avere una vita più lunga della precedente.
 
La cultura, poi, si adatta a tali esigenze. Anche l’eroe non è più colui che supera le mille fatiche e avversità e che, trasformato dalle sofferenze, diventa il totalmente altro. No! Oggi l’eroe è colui che di fronte al dolore cambia strada; che attua strategie per aggirare i problemi; che punta i piedi di fronte al rischio di dolore reclamando come diritto il non doverlo provare; che rimane uguale mentre cerca di schivare le avversità. È il resiliente!
 
Si delinea, dunque, una società priva di un vero ideale da perseguire, che mira piuttosto alla negazione di uno stato d’essere. Una società palliativa.
 
La chiusura in sé stessi, nella propria sfera protettiva, porta a ricercare le cause della sofferenza in sé stessi e non nel mondo. Introspezione del dolore.
Se l’eroe è il resiliente, coloro che un tempo furono rivoluzionari, ribelli, o semplicemente delinquenti, oggi soffrono di disturbi anti-sociali. Medicalizzazione del dolore.
Ogni causa ricade nell’individuo, fuorché quando si intende attaccare retaggi sociali del passato che si desidera estirpare, utilizzati come spauracchio per celare le contraddizioni di fondo della cultura dei diritti.
 
Paradossalmente, dunque, la società punitiva nel cercare di essere conservativa alimentava il cambiamento; viceversa, la società della tolleranza, pur credendosi progressista, si scopre inevitabilmente conservativa.
Paradosso che è tale, in verità, solo per coloro che ancora non hanno compreso la lezione di Eraclito ed Hegel: ogni cosa richiama il suo contrario e si sviluppa in relazione ad esso.
Il tentativo di estirpare il dolore, quindi, pur rallentando lo sviluppo, è un progetto destinato a fallire.
 
Il dolore, il negativo, è ciò che sostanzia lo sviluppo dialettico dell’individuo e della società. Uno sviluppo che riguarda, in primis, la Ragione umana. “Il dolore è ciò che distingue il pensiero dal calcolo e dall’intelligenza artificiale. Intelligenza significa scegliere tra (inter-legere). È la capacità di distinguere” (Byung-chul Han). Accantonare il dolore significa scegliere tra ciò che è già in essere.
Un mondo senza dolore perpetua l’uguale poiché è costretto a riproporre l’esistente. Non è in grado di generale il totalmente altro.
Il pensiero, al contrario, si forgia sulla sofferenza e, grazie a questa, percorre sentieri inesplorati. Solo il dolore è capace di trasformare l’intelligenza in Pensiero.
 
È come se avessimo erto il principio aristotelico d’identità e non contraddizione a modus vivendi.
Affermando l’identità con sé stesso, si scongiura la possibilità del negativo e della trasformazione, ponendo così un motore immobile che perpetua l’uguale.
L’identità dialettica, viceversa, non si limita ad un mero atto di affermazione; piuttosto, evolve da una fase affermativa a una negativa, incorporando le contraddizioni che fungono da catalizzatore per superarle e raggiungere la piena realizzazione di sé: l’identità compiuta.
Nella società moderna si cerca di estrarre il positivo dal positivo, mentre in quella passata si sapeva che il positivo si otteneva con la giusta dose di negativo. Perché il positivo che sorge dal negativo è il totalmente altro mentre il positivo che scaturisce dal positivo è l’uguale a sé stesso.
 
È dunque ingenuo e dannoso ritenere che la fuga dal dolore sia un atto di progresso.
Tentare di attenuare le sofferenze è più che normale. Pretendere di abolire il dolore è invece sintomo di superbia e incoscienza.
 
In un’epoca che idealizza la tolleranza come soluzione universale, è cruciale riconsiderare il valore del dolore come motore del cambiamento.
Mentre cerchiamo ansiosamente di evitare ogni forma di sofferenza, rischiamo di dimenticare che è proprio attraverso la sua accettazione e trasformazione che possiamo sperare di progredire.
Il dolore non è semplicemente una prova da superare, ma una lezione imprescindibile che forgia la nostra vite e ci spinge verso nuovi orizzonti.
Nel tentativo di allontanarci dal dolore, ci troviamo invece imprigionati nella staticità dell’ordinario, privi della capacità di generare il nuovo e l’inedito che tanto necessitiamo.
 
Per sconfiggere questa sindrome di debolezza, dobbiamo in primis liberarci di quella confortevole cornice teorica che prende il nome di postmodernismo, oppio dei popoli che affligge la società occidentale.
Non ci resta che sperare ci sia del vero nel proverbio che recita: “Tempi duri generano uomini forti, uomini forti generano tempi felici. Tempi felici generano uomini deboli, uomini deboli creano tempi duri”.

 

Ciò che preoccupa, è la consapevolezza che siamo solo all’alba dei “tempi duri”. Quel che consola, è la fede nella ciclicità di tale processo.

(Questo articolo è stato precedentemente pubblicato su Dissipatio)