Forma istituzionale e geopolitica

Bandiera italiana e tessera del referendum costituzionale. A sottolineare la differenza fra Stato e forma istituzionale

Quanto conta la forma istituzionale nei rapporti internazionali

Il poeta tedesco Heinrich Heine affermava nell’ottocento che “sono le idee a determinare i fatti“.
Pare che questa convinzione, ancorché da molti osteggiata in linea di principio, sia presente in ognuno di noi.
Essa, tuttavia, è interpretabile in almeno due modi: (a) le idee rappresentano la causa dei fatti, per cui questi non godrebbero di esistenza senza un’idea che li partorisse; (b) le idee sono ciò che ci permette di comprendere i fatti, che li inquadra in schemi cosicché l’uomo possa pensarli e dunque conoscerli.
Entrambe le interpretazioni detengono porzioni di verità, ma la prima ha il pregio di dimostrarsi vera nella quotidianità di ogni individuo.

Per questo, in maniera quasi istintiva, l’uomo ha sempre abbracciato la prima interpretazione. D’altronde è quella che permette massima espressione al nostro ego smisurato.

 

Non è tuttavia da incolpare noi stessi per questo. La ricerca di linearità causale tra idee e fatti può essere vista come uno dei motori della civiltà. E come non potrebbe essere così? Come diceva Aristotele, l’uomo è un animale razionale (zoon logon echon), e come tale non può far altro che cercare di razionalizzare il mondo circostanze. Ma cos’è la razionalizzazione se non il tentativo di far seguire i fatti alle proprie idee.
Questo approccio, però, ha portato a sottostimare tutto ciò che prescinde dalla nostra volontà. Ad ignorare il percorso inverso, ossia che le idee siano determinate dai fatti. Ci ha innalzati al di sopra del reale come fossimo un Dio creatore.

 

Ci si chiederà cosa centra questa premessa con il tema in oggetto, ovvero  quello di comprendere quanto pesa la forma istituzionale nella politica internazionale?
Per comprenderlo dobbiamo partire fissando alcuni punti.


Non esiste Stato senza forma istituzionale e non esiste forma istituzionale senza Stato. Una grande banalità, esclameranno in molti. Certo, ma partire dalle fondamenta ci permette di comprendere alcuni presupposti che, abituati a darli per scontati, irrimediabilmente dimentichiamo.
La necessità squisitamente umana di far sì che i fatti siano determinati dalle proprie idee, trova il suo apogeo nella formazione dello Stato e nella creazione di un sistema istituzionale conforme al popolo che lo ha eretto. Lo Stato è il “cosa“, la forma istituzionale il “come“.

 

Il primo, stabilendo un confine fisico, sancisce anche (e soprattutto) gli spazi di libertà e volontà. Lo Stato rappresenta, in prima istanza, il tentativo di arginare le forze incontrollate della natura e del contesto. In seconda istanza, il tentativo di frenare l’istinto prevaricatore dell’uomo verso i suoi simili.
Nell’umanità organizzata, il limite è la condizione necessaria dell’essere (come insegnavano gli antichi greci). Senza questo l’unica volontà che sopravvive è la volontà di potenza e l’istinto di sopravvivenza, il lato più bestiale dell’essere umano che, per questo, da sempre cerca di arginare.
Lo Stato è la razionalizzazione della comunità, costruito appositamente per permettere alle idee di concretizzarsi.


La seconda è diretta conseguenza del primo. La forma istituzionale (e il diritto ad essa affine) permette di stabilire gli spazi di azione e libertà di individui e collettività. Indica le regole e dà forma e sostanza alla volontà del popolo che vi abita.

 

Lo Stato è figlio della necessità, la forma istituzionale della volontà. Il primo è la struttura, la seconda è la sovrastruttura. Il bisogno che li muove è il medesimo: permettere alla collettività che vi abita di esprimere il bisogno innato di determinare i fatti tramite le proprie idee.
Un popolo senza Stato è un popolo che vede intaccato questo bisogno. Per questo ciò che brama, in primis, è proprio lo Stato.
Si pensi al popolo ebraico e quello palestinese, oppure ai curdi, comunità sparpagliata fra più nazioni (Iraq, Turchia, Siria, Iran) che da tempo, patendo l’infausta condizione di minoranza, ambisce a farsi Stato.
Tutti questi popoli hanno ben chiaro che la condizione necessaria per esprime la propria libertà e volontà risiede nella formazione di uno Stato che rispecchi il volere della collettività che lo erige. 

 

Il rapporto tra necessità e volontà ricalca quello tra interessi e valori.
Lo Stato origina dalla necessità e si manifesta nell’interesse (nazionale). Il filo conduttore che lega questi tre elementi è la sopravvivenza del soggetto statuale.
L’interesse è la concettualizzazione di ciò che il contesto impone. È la razionalizzazione del necessario. L’idea determinata dai fatti. Il pragmatismo della ragione. La consapevolezza di ciò che è necessario perché lo Stato si mantenga in vita.
Così come l’interesse della stabilità personale va ricercato nella creazione di un contesto favorevole – che va quindi al di là della sfera individuale – allo stesso modo lo Stato rintraccia e persegue il suo interesse al suo esterno prima ancora che al suo interno.
È nel rapporto con altri Stati e nell’interazione col contesto naturale che rintraccia vincoli e imperativi sintetizzandoli in concetti (l’interesse, appunto). Ciò non significa che manchi l’elemento di introversione, ovviamente. Ma la sua necessità si manifesta principalmente nei momenti di crisi, quando è la comunità stessa che rischia di sfaldarsi (e questo sì che ha enormi ripercussioni a livello internazionale).

 

Viceversa, la forma istituzionale origina dalla volontà e si esprime nei valori e nei principi. Questi rappresentano il faro della ragione che vuole illuminare la realtà, plasmandola. L’istituzione è la massima espressione della volontà proprio perché rappresenta l’idea che cerca di determinare i fatti. I principi e i valori che le comunità ergono a pilastri della propria istituzione, nascono e trovano il proprio compimento nel perimetro dello Stato. Possono certamente essere condivisi fra società simili, ma valori condivisi non significa che l’ardore con cui ci si batte a casa propria venga replicato in casa altrui. L’ethos non trascende mai i confini del popolo che lo esprime.

 

Questi binomi (Stato-Istituzione, necessità-volontà, interesse-valori) non viaggiano certo in parallelo, ma si intrecciano l’un l’altro. Al tempo stesso, però, è bene chiarire che per quanto ci possa essere reciproca influenza, non potrà mai essere la volontà a definire la necessità – al massimo potrà indicare una diversa via per il suo perseguimento – ma solo il contrario. Così com’è impossibile pensare che i principi e i valori caratteristici di un certo tipo di forma istituzionale sanciscano quali siano gli interessi dello Stato. Il rapporto causale è esattamente l’opposto. È la forma che si adatta alla sostanza.
In modo del tutto inconsapevole, i valori e i principi che una comunità si da sorgono dalla necessità di allinearsi a quelli che sono gli interessi del momento. Non provengono certo dall’iperuranio. Non esistono idee disincarnate.

 

Dovrebbe apparire già abbastanza chiaro che i campi d’azione dello Stato e delle istituzioni sono ben diversi. Volendo semplificare al massimo, si potrebbe dire che i valori cristallizzati nelle forme istituzionali sono l’ipostatizzazione della moralità individuale applicata ad una comunità di simili (o atta a renderli tali), mentre l’interesse dello Stato rappresenta le necessità basilari dell’intero popolo. La proiezione della “forma” è all’interno dei suoi confini, quella della “sostanza” è principalmente al di fuori di questi.
Per tale motivo «non bisogna sollevare pretese morali contro le azioni di portata storica, poiché tali azioni non ricadono nella sfera della moralità. Contro di esse non bisogna sollevare la litania delle virtù private […]. La storia mondiale potrebbe in generale prescindere del tutto dalla sfera nella quale cadono la moralità e la distinzione, così spesso dibattuta, fra morale e politica; e non soltanto perché la storia dovrebbe astenersi dal giudicare […], ma perché la storia mondiale deve solo informarci circa le azioni dello spirito dei popoli.» [1]


Quando si esce dai propri confini, gli Stati si interfacciano in base ai propri interessi e non sui propri valori. Questi sono ad uso interno. E quando vengono sbandierati all’esterno, servono per celare i propri scopi e per coinvolgere la popolazione tramite una missione universale.

 

Proviamo a pensare a come viene spesso raccontato il conflitto attuale: “Democrazie contro autocrazie“, “La guerra per la libertà“, “La guerra Russia-Ucraina e i semi di un nuovo ordine plurilaterale liberale“. La lista sarebbe lunga, ma in fin dei conti ripetitiva, per cui sono sufficienti questi esempi.
Ciò che caratterizza queste descrizioni è l’accento posto sulla forma istituzionale e sui valori ad essa collegati  (la libertà). Si sottointende che siano questi i nodi del contendere. Che qui si giochi la battaglia e per questo le nazioni sono entrate in conflitto (ovviamente ci siamo concentrati sulla sponda occidentale visto che ne facciamo parte, ma dall’altra parte della barricata la logica è la stessa).
«La cultura politologica si convince che sia il mezzo a fare il soggetto, che la forma produca la sostanza. Secondo tale assunto, la traiettoria delle collettività sarebbe prodotta dall’assetto istituzionale, le scelte imposte dall’ideologia, la sorte decisa dalla classe dirigente». [2] Si ignora, ad esempio, che i paesi (cosiddetti) occidentali non sono alleati poiché formati da democrazie, ma sono formati da democrazie perché alleati. Italia e Germania modificarono la loro forma interna solo a seguito di una sconfitta e di un’occupazione militare. Questo perché è più facile “collaborare” con paesi che rispecchino la propria struttura interna.
Bisogna però state attenti a non cadere nell’errore di sopravvalutare l’importanza di tale fattore. La diversità nella forma istituzionale, infatti, non impedisce la collaborazione se gli interessi collimano e, allo stesso modo, un’affinità di “forma” non implica necessariamente un’alleanza di fatto. La forma istituzionale può servire per rafforzare un rapporto preesistente, ma se assente non lo impedisce, così come se presente non lo implica necessariamente.

 

Non mancano gli esempi che dimostrano tale ambiguità. Basti pensare alle autocrazie del golfo e della penisola arabica, per anni avamposto degli Stati Uniti in Medio Oriente nonostante l’enorme divergenza ideologica e istituzionale; oppure il rapporto tra Cina e Vietnam, entrambi paesi comunisti, ma rivali dal punto di vista strategico, portando così il Vietnam a trovare nei democratici Stati Uniti un prezioso alleato.
Di base, la forma istituzionale non può assumere grande rilevanza nell’interpretazione dei rapporti internazionali. È l’interesse dello Stato che decide – in un certo tempo storico e in relazione ad uno specifico contesto – se la forma istituzionale debba svolgere qualche ruolo in politica estera.

 

Nei rapporti internazionali vige il cinico pragmatismo. È il luogo in cui i fatti generano idee conformi a giustificarli. In cui vincoli, imperativi, interessi sovraordinati modellano la forma.
Non è per liberare l’Ucraina dai nazisti che la Russia ha invaso l’Ucraina, e non è per difendere la libertà e la democrazia che gli Stati Uniti e i paesi europei supportano il paese invaso. La Russia necessitava di estendere la sua influenza nell’est Europa, di avere un maggior controllo sul mar nero. Credeva che una tale azione potesse aprire alla possibilità di un nuovo assento in Europa, convinta che gli USA non si sarebbero immischiati e che i paesi europei erano troppo dipendenti dalle risorse energetiche russe per rompere i rapporti. Valutazioni errate, ma dettate da interessi non da ideologie.

 

Il ‘900 è stato il secolo delle grandi ideologie. Decenni di dibattiti e accuse reciproche tentavano di stabilire quale sistema economico-ideologico-istituzionale portasse in sé, più degli altri, il germe della guerra. Ideologia eretta a causa prima.
Certo, l’applicazione di ogni sistema ha delle implicazioni (dalle coercizione economica alla repressione interna), ma non si può dire che le ambizioni territoriali della Germania nazista derivassero dall’essere nazista, così come quelle russe dipendessero dall’ideologia sovietica. Al massimo si potrebbe dire, in alcuni casi, che tali ideologie contemplavano tale azioni poiché esse stesse effetto di interessi sovraordinati, che quindi li declinano ammantati di retorica.
D’altronde basterebbe prendere in mano i libri di storia da prima della rivoluzione francese per vedere quanta importanza viene data alle ideologie nelle guerre tra nazioni. Non viene negato il fattore ideologico, ma giustamente ridimensionata la sua portata di fronte ai ben più rilevanti fattori strategici, come ad esempio nella Guerra dei trent’anni o nelle Crociate.

 

«Si potrebbe dire che tra la buona salute di uno Stato e la solidità delle sue istituzioni vi  è un rapporto dialettico: la sua forza [dello Stato] gli consente di costruire istituzioni solide, e queste gli forniscono i mezzi più adeguati per accrescere la propria forza. […] Per quanto le apparenze possano talvolta suggerire altrimenti, è improbabile che le istituzioni, da sole, siano decisive nella politica degli Stati.» [3] La rilevanza della forma istituzionale nella politica internazionale si gioca principalmente nella definizione di come è strutturato il potere decisionale, poiché l’accentramento di questo in un unico organo o piuttosto il bilanciamento con altri, può cambiare il modus operandi dello Stato. Tuttavia, anche qui, per quanto rilevante, si tratta di una distinzione che può avere effetti tattici e non strategici. Che afferisco più alle contingenze del momento piuttosto che al lungo periodo. Che riguarda il “come fare” e non il “cosa fare”. 

 

Il più grande errore nell’analisi geopolitica è quello di attribuire centralità ai fattori morali, ai valori e principi. In questo modo si smette di comprendere i fatti e si inizia semplicemente a giudicarli (in base ai propri schemi, ovviamente).
È legittimo e naturale che l’uomo voglia distinguere ciò che è giusto da ciò che è sbagliato e battersi per questo. Ma deve avere ben chiaro che il mondo e gli Stati non seguono tali schemi. La moralità è figlia della volontà e gli Stati non basano i propri interessi su questa, ma sulla necessità.
«Che la Cina sia democratica e profondamente inserita nell’economia globale oppure autocratica o autarchica è una circostanza che avrà scarso effetto sul suo comportamento, perché le democrazie hanno a cuore la sicurezza né più né meno delle non democrazie, e l’egemonia è il modo migliore per qualunque Stato di garantirsi la sopravvivenza.» [4]

 
In conclusione, ritorniamo all’inizio.
All’interno dei confini nazionali, le idee (la ragione, i valori) possono determinare i fatti. Gli Stati esistono (anche) per questo. Per predisporre le condizioni di plasmabilità della realtà da parte dell’uomo.
Oltrepassato il confine, immersi nell’arena internazionale, le idee perdono la corona. Devono arrendersi ad essere meri strumenti dei fatti. Qui il compito della ragione non può essere quello di plasmare la realtà, ma di accettarne la sua violenza, comprendere la sua grammatica e concettualizzare i propri interessi in base a questa (che corrisponde alla seconda interpretazione che abbiamo dato dell’affermazione dei Heinrich Heine).
A nessuno piace sentirsi inerme di fronte a qualcosa che non si può cambiare. Per questo ammantiamo la necessità con un velo di volontà. È la condizione per percepirsi liberi e fautori del proprio destino e serve a dare forza e ardore alle proprie azioni.

Immersi nel sogno dei valori universali (poiché nostri), senza rendercene conto, aneliamo un’istituzione priva Stato, cosicché possa essere la moralità (e non l’interesse) a governare il mondo.
Le istituzioni internazionali sono figlie di tale logica. E i loro continui fallimenti ci informano della sostanziale incoerenza di fondo. Nel migliore dei casi, esse diventano strumento di Stati nazionali. Nel peggiore, vengono totalmente ignorate.
Ciò che è necessario (soprattutto per noi italiani) è riscoprire il senso dello Stato. Comprendere che nell’arena internazionale la volontà umana, pur rimanendo il motore, vede ridotti drasticamente gli spazi di manovra. Deve fare i conti con ciò che non può controllare. Deve allineare il proprio volere all’interesse che sorge dalla necessità.
Una volontà che si erge al di sopra della realtà e che pretende di plasmarla avrà vita breve.
Martin Heidegger affermava in “Essere e tempo”: «Più in alto della realtà si trova la possibilità». Ecco, è bene capovolgere queste parole e accettare, seppur a malincuore, che più in alto della possibilità (e della volontà) si trova la realtà (e la necessità).

[1] G.W.F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, Laterza, p. 60.

[2] Limes, Rivista italiana di Geopolitica, n. 08-2019 “Il fattore umano”, p. 35.

[3] Manlio Graziano, Geopolitica, Il Mulino, p.179.

[4] John Mearsheimer, La tragedia delle grandi potenze, Luiss, p. 34.