Il successo della Geopolitica è la rivincita della Filosofia

Geopolitica e Filosofia

La geopolitica è la prosecuzione della filosofia con altri mezzi. Per questo il successo della geopolitica è la rivincita della filosofia.

È doveroso premettere l’ovvio: qui si parlerà di filosofia e geopolitica come fossero oggetti monolitici, cosa che ovviamente non sono. Per questo definiamo subito quali sono i nostri punti di riferimento: la prospettiva geopolitica alla quale ci riferiamo potrebbe essere definita “umanismo geopolitico”, che rintracciamo in alcune importanti riviste e think tank, come Limes e Domino in Italia e Geopolitical Futures negli Stati Uniti; quello filosofico al pensiero di Hegel.
Ulteriore precisazione: al contrario dell’ortodossia filosofica, pronta a scomunicare chiunque si rapporti al pensiero altrui col “taglia e cuci” – prendendo ciò che c’è di buono in un pensiero, aggiungendo parti e scartando il resto, così da costruire la propria tesi – noi qui ergiamo tale scomunica a virtù, fedeli all’insegnamento di Alexandre Kojève che abbe a dire: “M’importava relativamente poco sapere ciò che Hegel stesso aveva voluto dire nel suo libro; io ho fatto un corso di antropologia fenomenologica servendomi dei testi hegeliani, ma dicendo soltanto ciò che consideravo esser la verità, e lasciando cadere ciò che mi sembrava essere, in Hegel, un errore.” [1]
Preferiamo quindi la scomunica, riprendendo ciò che c’è di buono nel massimo filosofo della modernità (Hegel), genio indiscusso dal quale hanno inevitabilmente attinto innumerevoli pensatori e analisti geopolitici.
 
Terminata questa premessa, iniziamo dal principio.
La geopolitica è ormai sulla bocca di tutti. Usata a sproposito o a ragion veduta, adulata od ostacolata, è indubbio che abbia fatto breccia nell’opinione pubblica, nel mondo intellettuale e perfino in quello accademico.
Per molti, la risposta di tale successo è presto detta: l’imperversare di crisi e caos, il rimodellamento dell’ordine internazionale e l’emergere di nuove sfide tra grandi potenze fanno sorgere domande alle quali la geopolitica fornisce risposte.
Questa risposta, tuttavia, non è sufficiente.
Dovremmo chiederci innanzitutto perché lo stesso successo non è constatabile per le scienze politiche e le relazioni internazionali, o perché non ci si appelli allo stesso modo alla “salvifica” disciplina economica, la quale per anni ci era apparsa sufficiente a descrivere e predire il corso del mondo.
 
I “critici ingenui” della geopolitica – che casualmente appartengono spesso alle due discipline sopracitate – rispondono superficialmente che il successo della geopolitica è dovuto alla sovra-esposizione mediatica. Una spiegazione che fa acqua da tutte le parti. Innanzitutto si pone l’esposizione come causa del successo e non come suo effetto; in secondo luogo non spiega perché lo stesso principio non valga per tutte quelle discipline che godono o hanno goduto della medesima visibilità.
 
Ridurre il successo di ogni disciplina alla mediatizzazione del sapere significa fare un torto all’uomo e alla conoscenza. Un errore dovuto alla fallacia logica che vorrebbe il mondo dei media e quello della società civile svilupparsi in parallelo; come se il primo non fosse incluso nel secondo; come se non fosse sua rappresentazione.
 
Il successo della geopolitica si spiega in altro modo. Essa risponde a quell’esigenza squisitamente umana (e da molti criticata) di conoscere la totalità espressiva del mondo. Il bisogno di comprendere il tutto tramite il tutto; di conoscere l’intero da ogni angolazione possibile.
La geopolitica non è un sapere specialistico, ma un catalizzatore di saperi e la sua forza esplicativa (e perciò attrattiva) risiede proprio nella capacità di far dialogare le parti (i saperi specifici) per ottenere una rappresentazione organica della totalità.
«Il vero è il Tutto. Il Tutto, però, è solo l’essenza che si compie mediante il proprio sviluppo».[2]
Quando vediamo la geopolitica scagliarsi contro l’economicismo, ad esempio, altro non è che un mettere in guardia dalla fallacia dello specialismo conoscitivo. L’economia infatti non viene esclusa dall’analisi geopolitica, semplicemente non viene erta a deus ex machina della realtà.
 
L’esigenza di filosofia e geopolitica sorge quando la storia smette di procedere per inerzia; quando iniziano a comparire le rughe sul volto del presente.
Quando è in corso l’Aufhebung, l’uomo sente di dover determinare il cambiamento.
È in questa fase che esse assurgono a discipline indispensabili, perché la prima permettere di comprendere il proprio tempo appreso col pensiero (che, come la nottola di Minerva, appare sul far del crepuscolo, quando la fase si è appena compiuta) e la seconda, facendo sua la comprensione della fase precedente, cerca di determinare la successiva in base a quella consapevolezza.
 
Il vero è il Tutto perché il concreto è l’intero, mentre l’astratto è il parziale.
Tratti in inganno da decenni di puro scientismo, abbiamo introiettato l’idea che, al contrario, il concreto stia nella parte, nella specificità, nella differenza della molteplicità irriducibile ad una totalità, proprio perché questa annullerebbe ogni eterogeneità “come [con] un colpo di pistola[3]. Tale principio ontologico è in correlazione con quello metodologico, che ha nel metodo sperimentale la sua ragion d’essere: isolare la parte dal tutto per poterla comprendere nella sua specificità e, da questa, tentar di dedurne leggi universali. Posizione che ben si addice al campo delle scienze (della natura), ma che nell’umano può solo contribuire, non certo imperare.
Nell’impersonalità della natura, infatti, un’accurata astrazione della parte dal tutto può a giusto titolo essere considerata una fedele rappresentazione del Tutto stesso, se ne riporta le medesime proprietà. Ma l’umanità ha un surplus ontologico che impedisce tale modo di procedere. Coscienza e volizione non sono separabili dal luogo e dal tempo nei quali sono immersi. Non si possono prendere individui, studiarli in laboratorio e da questi trarne leggi universali che possano valere per il passato e per il futuro.
Ecco perché, al contrario di quanto si è soliti credere oggigiorno, il concreto è l’intero poiché solo immerso nel tutto mostra cos’è in verità; mentre la separazione dal contesto, la costruzione del “caso” e la parzialità dell’osservazione portano a pure e semplici astrazioni. Non sono il falso, ma il verosimile, dunque il non-vero.
È chiaro, quindi, che la totalità dell’essere possa essere appresa solo con la totalità del conoscere, ossia tramite conoscenze che osservino l’essere da diverse angolazioni e tramite una ragione che compia una sintesi delle parti, cogliendole come partecipanti alla determinazione del Tutto.
 
Immaginiamo già la critica – poco originale in verità – secondo la quale questa visione del Tutto rappresenti un concetto oppressivo che annulla le differenze. Un’accusa spesso rivolta contro Hegel, probabilmente perché non si è arrivati a leggere nemmeno la prefazione della Fenomenologia dello Spirito, nella quale è lo stesso Hegel a muovere quest’accusa verso il pensiero di colui dal quale è possibile  invero dedurre tale conseguenza, ossia Shelling. Il filosofo di Jena liquida tale assurda prospettiva in poche righe: «Ora, contrapporre alla conoscenza differenziante e compiuta, o alla conoscenza che cerca ed esige compiutezza, quest’unico sapere per cui nell’Assoluto tutto è uguale, oppure spacciare il proprio Assoluto per la notte nella quale, come si suol dire, tutte le vacche sono nere: ebbene, tutto ciò non è altro che l’ingenuità di una conoscenza vacua». [4]
Il Tutto di cui parliamo qui, dunque, non è una totalità oscurantista che cancella ogni differenza, ma al contrario un Tutto dove le parti acquisiscono la propria ragion d’essere; dove le relazioni che scaturiscono dalle differenze configurano una totalità da cogliere. Né individualità slegate e indipendenti le une dalle altre, né individualità annullate, ma individualità che attraverso il travaglio della relazione divengono nel Tutto loro stesse.
Questo è il principio delle comunità umane, oggetto della geopolitica. Esse non annullano le individualità ma ne sono espressione. Le collettività non sono entità astratte imposte dall’altro ma essenze concrete emerse dal basso.
 
Geopolitica e la filosofia, dunque, hanno per oggetto le comunità umane e si pongono l’obiettivo di comprenderle nella loro totalità espressiva, ossia nella sintesi dei loro rapporti interni ed esterni.
Per comprenderne la struttura è necessario cogliere ciò che è sostanziale. Non farsi abbagliare dalla cronaca e dalle breaking news, ma cercar di scorgere sotto il velo delle apparenze ciò che rende quel popolo ciò che è.
Soltanto se guardiamo all’essenziale possiamo porre come oggetto la comunità nella sua totalità. Solo così è possibile discernere il necessario dall’accessorio. È in base a tale distinzione che una molteplicità di individui prende forma in un’unità.
Se il carattere della collettività è il necessario e quello dell’individuo e l’accessorio, queste peculiarità dell’essere si estendono al loro divenire storico. La geopolitica, infatti, sa bene che, come è più facile approssimare il comportamento di una molecola piuttosto che quello di un atomo [5], allo stesso modo è possibile anticipare lo sviluppo di una comunità mentre sarà impossibile far lo stesso per un singolo individuo. Il Tutto ha comportamenti più regolari e prevedibili rispetto alle singole parti.
Il carattere necessario non riguarda ovviamente l’inevitabilità di ciò che sarà, sennò staremmo parlando di predizione e non di anticipazione o previsione.
Il necessario è rintracciabile in alcuni caratteri della sostanza e questi permettono di tracciare una possibile traiettoria futura. Quando gli analisti geopolitici parlano di vincoli e imperativi [6] di una collettività, altro non sono che la declinazione della necessità dell’essere nel campo del poter essere.
 
La filosofia è ciò che permettere di cogliere lo “spirito del popolo”, la sua sostanza e quindi il necessario. La geopolitica si serve di questa analisi umana e vi aggiunge come corollario gli altri punti di osservazione: analisi geografica, economica, politica, militare, tecnologica e culturale – sono questi a girare attorno alla prima e non viceversa, poiché è sempre il soggetto a determinare l’oggetto e non il contrario.
Il punto di arrivo della filosofia è il fondamentale punto di inizio della geopolitica.
 
Se il concreto è l’intero, la filosofia da sempre ha tentato di coglierlo. Ha cercato, cioè, di concettualizzare il concreto, di razionalizzare il reale. Questo non significa credere che la realtà (umana) sia in sé razionale, ma che questa, in quanto prodotto dell’umanità, sia razionalizzabile, comprensibile.
L’irrazionalità non è mai bandita, al massimo incompresa. Si può infatti razionalizzare ciò che ci sembra irrazionale, comprendere quel che logicamente appare sconveniente e contro l’interesse di chi lo mette in atto. È questo il principale motivo che rende impossibile una previsione deterministicamente intesa.
 
La filosofia, una volta colta la sostanza contradditoria del reale, e pur postulando il suo incessante divenire, ha rinunciato ad andar oltre il suo tempo. Si è posta invece alla finestra, appagata dall’aver compreso ciò che ormai si è chiuso e in attesa che sul far del crepuscolo la nottola di Minerva le sussurrasse una nuova realtà passata.
Se la filosofia è quindi il proprio tempo appreso col pensiero, la geopolitica è il pensiero del proprio tempo calato nel concreto.
La filosofia guarda a ciò che si è già realizzato; la geopolitica fa suo il lavoro della filosofia, per cercar di comprendere cosa si realizzerà.
 
Se è chiaro quanto detto sin qui, ne consegue logicamente la centralità dello Stato e della Storia. Il primo, non inteso esclusivamente come Stato Nazionale, ma come ogni rappresentazione statuale di una comunità, che comprende dalle poleis greche, i comuni e i ducati medioevali, fino agli imperi e agli stati nazionali. Cambia la forma, non la sostanza.
Riguardo la Storia, potremmo dire, con Hegel [7], che essa include la historia rerum gestarum e le res gestae, ovvero riunisce sia l’aspetto oggettivo (l’accaduto), sia quello soggettivo (la sua narrazione).
L’esigenza di raccontarsi, di descriversi, nasce con la fondazione dello Stato. Questo prende forma come un sistema di leggi e costumi di un certo popolo in un determinato spazio geografico. Nel suo sorgere, fa emergere anche l’interesse del popolo di raccontarsi, di narrare le proprie azioni, sia al fine di tener traccia di accadimenti utili all’organizzazione (documenti), sia perché necessario ad alimentare la coscienza di sé (epopee, tragedie, commedie ecc.).
Al contrario, in assenza di Stato – come in quelle comunità che rappresentano la semplice estensione di una stirpe e per le comunità nomadi – la collettività non desidera descrivere sé stessa ma sente piuttosto la necessità di giustificare la sua presenza nel mondo. Giustificazione che non può trarre dalla presenza di uno Stato e dalla proprietà di una terra. Per questo in tali contesti le narrazioni religiose e le verità rivelate prendono il posto della Storia, poiché solo la trascendenza può colmare il vuoto lasciato dallo Stato.
È quest’ultimo, dunque, che fa germogliare la Storia.
 
Non vi è Storia senza Stato; non vi è Stato senza autocoscienza; non vi è autocoscienza senza Storia.
La geopolitica descrive l’autocoscienza come consapevolezza di ciò che si è in virtù di ciò che si è stati. In altri termini, è la coscienza della propria identità comunitaria derivante da fattori come l’appartenenza ad un territorio, ad una certa etnia, religione, ma soprattutto dalla profondità storica della sua origine. Tale consapevolezza è ciò che permette alla comunità di restare unita e di dedurne obiettivi e possibili traiettorie future.
In filosofia l’autocoscienza è un tema centrale, sia in senso individuale sia collettivo. È un concetto dinamico che parte dall’intuizione della propria identità, attraversa l’opposizione con la molteplicità e il suo smarrimento, per poi ritornare in sé e per sé come identità compiuta, consapevole di sé e che il mondo che ha di fronte è sua stessa produzione.
Se è vero che la conoscenza è potere, e che quindi ogni Philo-Sophia è intimamente una Krato-Sophia, l’autocoscienza è la prima rappresentazione di questo potere. Questo si esprima nella solidità della propria identità e nella consapevolezza di poter determinare l’oggetto che sta di fronte.
 
Per comprendere quanta forza vi sia nella conoscenza dell’autocoscienza, basta osservare la debolezza di chi crede di poterne fare a meno. Un esempio su tutti è l’Unione Europea. Un soggetto che in verità è un oggetto, poiché non emerso dal popolo ma costruito al di sopra di esso. Basato sull’interesse, non sull’identità. Oggetto senza autocoscienza poiché popolato da una moltitudine di autocoscienze slegate le une dalle altre. A nulla valgono leggi e regolamenti, mercato comune ed elezioni. Se non v’è un’identità che vien dal basso, consapevole di sé stessa, l’oggetto rimarrà sempre un oggetto, ovvero pura astrazione. Artefatto.
La sua irrilevanza nello scacchiere mondiale è la più chiara dimostrazione di quanto testé affermato.
L’Unione Europea è un peccato di superbia che viola la grammatica ontologica che vuole il concetto aderente all’oggetto. Un concetto che pensa l’oggetto come fosse un soggetto è un’astrazione che non potrà mai realizzarsi.
La pretesa sta nel credere di poter determinare soggetti (diversi da sé stessi) anziché oggetti.
 
L’idea che il soggetto produca l’oggetto; che l’autocoscienza si fondi sull’identità degli opposti; che insomma la realtà sia un’estensione del soggetto stesso e che l’autocoscienza possa essere raggiunta quando si comprende che l’esteriorità non esiste in quanto tale ma semplicemente come mia produzione; tale concezione, affascinante e potente, cela però tra le sue pieghe un enorme rischio. Da un lato spiega la forza creatrice dell’uomo, l’evolvere della coscienza collettiva (oltre che individuale) e la capacità di una comunità di imporsi sulle altre bramando la gloria; dall’altro predispone all’errore di estendere la propria soggettività (individuale e collettiva) oltre i limiti che le sono propri.
La filosofia ha il grande merito di spiegare come la volontà si erga sulla necessità. Al tempo stesso però, una volta compiuto tale processo, scambia la potenza della volontà con la volontà di onnipotenza, capovolgendo il rapporto tra necessità e volontà e contraddicendo dunque i presupposti iniziali. Quasi che, una volta compiuta, quella soggettività possa spogliarsi di ciò che era per poter liberamente decidere ciò che sarà. Come se il suo cammino non avesse il semplice obiettivo di compiersi, ma di liberarsi della necessità che l’ha portato ad essere ciò che è. Così, come fosse un infausto destino, non appena si raggiunge l’autocoscienza, dato il senso di potere che conferisce, si è portati istantaneamente a superare i confini del proprio essere.
Un peccato di superbia riscontrabile ogni qual volta una comunità confonde causa ed effetto nell’osservare sé stessa e il mondo. Quando pone le sue creazioni (leggi morali, ideologie) come cause prime, motori del divenire storico e non semplici effetti derivanti da elementi ben più sostanziali (e necessari).
Un vizio al quale l’uomo è incapace di sottrarsi e che porta ad interpretazioni come quelle secondo le quali l’impianto ideologico e istituzionale di un paese siano ciò che determina la postura internazionale dello stesso, e non una semplice veste che una comunità indossa come strumento per giustificare e perseguire le proprie ambizioni, le quali precedono e determinano l’abito da indossare.
Ecco, su questo la geopolitica ha fatto un passo in avanti, aggiustando il tiro della filosofia e ricordando a noi stessi che, per quando inebriati si possa essere nel maneggiare gli strumenti della ragione, l’onnipotenza rimane un limite al quale non ci si può sottrarre.
 
In conclusione, dopo aver osservato l’interconnessione delle due discipline e quanto l’una possa offrire all’altra, auspichiamo che la filosofia, scoprendo quando utile sia (suo malgrado) a comprendere il presente, superi finalmente i tabù del passato e torni ad occuparsi di ciò che le è proprio.

(Questo articolo è stato precedentemente pubblicato su Dissipatio)

[1] Scambio epistolare tra Kojève e Tran-Duc-Thao del 1948, in G. Jarezyk, P.J. Labarrière, De Kojève à Hegel, pp. 64-68.

[2] G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito, Bompiani, 2016, p. 69.

[3] Ivi, p. 79.

[4] Ivi, p. 67.

[5] D. Fabbri, Geopolitica umana, Gribaudo, 2023, p. 10.

[6] GPF Special Report, How we forecast the future, Geopolitical Futures (https://geopoliticalfutures.com/wp-content/uploads/2021/12/SR_How-we-forecast-the-future_2022.pdf?utm_source=GPF+Customers&utm_campaign=5ba1404c78-20221227_PL_HowWeForecast&utm_medium=email&utm_term=0_fa39571b29-5ba1404c78-265166193&mc_cid=5ba1404c78&mc_eid=b91c0b9a5f)

[7] G.W.F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della Storia, Laterza, 2003, pp. 54-57.