Disimpegno americano e crisi della deterrenza

Crisi del sistema americano
Il 24 febbraio 2022 sarà ricordato in futuro come l’evento che ha dato il via ad una nuova suddivisione in blocchi del pianeta.
Da quel momento in poi le strade dell’occidente e delle potenze rivali hanno iniziato irrimediabilmente a divergere.
Le tensioni riemerse nel mondo che sono seguite all’invasione dell’Ucraina non sono certo casuali. 
Il 24 febbraio ha sconfitto prima di tutto un’idea, quella che circolava tra i nemici dell’occidente e che li portava a temere una diretta reazione statunitense qualora un loro alleato (o partner) fosse stato attaccato più o meno direttamente.
La deterrenza americana è quindi la vera sconfitta.
Le potenze avversarie hanno dimostrato che gli Stati Uniti non hanno più intenzione (né la possibilità) di fare gli “sceriffi” del mondo.
Vent’anni fa, in assenza di veri nemici, potevano permettersi di invadere in forze l’Iraq (e impantanarsi in una dispendiosa guerra civile) e l’Afghanistan, lanciando al mondo segnali della loro potenza.
Oggi hanno priorità diverse. Il sistema internazionale plasmato dagli USA è sotto attacco da nuove potenze revisioniste. Le risorse sono da indirizzare in virtù di tali minacce che hanno delle precise collocazioni geografiche.
Insomma, anche gli Stati Uniti hanno un limite alle proprie capacità e devono fare delle scelte, ma soprattutto sanno che oggi ci sono rivali disposti ad alzare la testa, che hanno notevoli capacità di contrattacco e che la presenza del nemico comune (USA e occidente) sta portando paesi storicamente rivali a coalizzarsi.
Date tali condizioni, gli Stati Uniti sono consapevoli che non possono sovra-impegnarsi e i loro nemici sanno che è proprio questo il loro punto debole.
La Cina è consapevole di essere l’osservato speciale e non può che gioire se le ingenti risorse (economiche e militari) americane deviino dalla rotta per Taiwan, approdando altrove (Ucraina, Medio Oriente, Caucaso o Africa). Allo stesso modo il Cremlino, consapevole di aver costretto gli alleati a consumare buona parte dei depositi di armi, non potrebbe che festeggiare se gli USA fossero costretti ad impegnarsi in altri teatri.
Una vignetta del quotidiano cinese Global Times (prodotto dal quotidiano ufficiale del Partito Comunista Cinese, il Quotidiano del Popolo) è abbastanza eloquente a riguardo.
Overwhelmed.Illustration:Chen Xia/GT
Molti si sono illusi che un mondo unipolare potesse durare a lungo. Che la presenza stessa di una superpotenza mondiale potesse impedire l’emergere di altre potenze nel globo. Illusione che si sta lentamente sgretolando di fronte agli eventi degli ultimi venti mesi.
Gli Stati Uniti rimangono di gran lunga la prima potenza, ma stare sul podio del Mondo non è così facile.
Nei primi vent’anni dalla caduta dell’Unione Sovietica, gli Stati Uniti si trovavano in una condizione ideale. Non vi era altra potenza che potesse intralciarli e l'”euforia” di tale condizione ha partorito impegni militari fuori misura rispetto all’unico nemico che ha avuto l’ardire di sfidarli (Al-Qaida).
Negli anni ’90 si parlò addirittura di “fine della storia”, a simboleggiare la vittoria americana e l’inevitabile destino del resto del Mondo (occidentalizzazione, o meglio, americanizzazzione).
In quei vent’anni, gli Stati Uniti hanno determinato il bello e il cattivo tempo.
L’interventismo era l’arma per dissuadere ogni potenziale nemico. Una strategia dispendiosa e in parte inutile, poiché non vi erano reali nemici da dissuadere. La Russia era ancor più debole di oggi e il vero boom economico, tecnologico e militare cinese si ebbe nel decennio 2010-2020, l’epoca di Xi Jinping alla guida del paese.

CRISI DELLA DETERRENZA AMERICANA

Nel corso degli ultimi vent’anni, la “guerra al terrorismo” (tramutata poi in guerra agli “Stati canaglia”) è costata agli americani migliaia di morti e trilioni di dollari. Un bilancio enorme per guerre strategicamente inutili, visto che il nemico era un soggetto informe che non si poteva debellare con la guerra convenzionale.
Un fallimento sugellato agli occhi di tutti con la ritirata dall’Afghanistan nell’agosto 2021. Forse la scelta più saggia in vent’anni, ma passata all’opinione pubblica mondiale come emblema degli insuccessi della politica estera statunitense.
Gli errori della guerra al terrorismo sono stati in un certo senso confermati dallo stesso Biden, che recentemente ha messo in guardia Israele dal non replicare ciò che fecero gli Stati Uniti a seguito dell’11 settembre.
In generale, la guerra al terrorismo e agli Stati canaglia fu un messaggio lanciato al mondo della potenza americana. Un avvertimento verso chi osava contrastarla.
Fu pura deterrenza, in un mondo povero di veri rivali geopolitici.
Oggi, però, non è solo il contesto internazionale ad essere mutato. La crisi del sistema americano origina soprattutto dal popolo americano e questo è condizionato dalla metabolizzazione della politica di estroversione del paese. La postura imperiale di una nazione ha un costo e l’errore statunitense è stato quello di “consumare” la fiducia e la tolleranza del suo popolo in guerre non indispensabili.
Quando oggi si parla della volontà americana di non impegnarsi direttamente nelle diverse crisi globali, bisogna tenere a mente tali fattori.
Uno dei sintomi (o forse cause) di quanto sta accadendo in America, è il calo della fiducia della popolazione nei confronti delle forze armate, unica istituzione che da sempre ha unito gli americani a prescindere dalle divisioni etniche e politiche. Secondo un sondaggio del Ronald Reagan Foundation and Institute, la fiducia nell’esercito è passata dal 70% nel 2018, al 45% nel 2022. Un tracollo vertiginoso che ha fatto suonare diversi campanelli d’allarme a Washington.
Ad un periodo di estroversione segue uno di introversione. La politica americana è cambiata.
L’emergere di una nuova superpotenza ha convinto ancor di più gli Stati Uniti a disimpegnarsi dal resto del mondo (in particolar modo dal Medio Oriente) per focalizzarsi sulla Cina.
Ma non esistono vuoti in geopolitica, e le potenze rivali non possono che approfittare di tale condizione.
Se guardiamo al Grande Medio Oriente, ad esempio, il tentativo di “sostituire” gli americani è abbastanza evidente: in Afghanistan la Cina sta penetrando attraverso la leva economica (massicci investimenti), riuscendo così a stringere buoni rapporti con i talebani; sempre la Cina ha mediato una storica riconciliazione tra Iran e Arabia Saudita; in Siria gli Stati Uniti non sono riusciti a spodestare Assad (sostenuto da Russia e Iran) e negli ultimi anni hanno perso sempre più influenza nella zona in favore di russi, turchi e iraniani (pur mantenendo basi e truppe nel sud-est del paese a sostegno dei curdi siriani); in nord Africa la penetrazione turca, russa e cinese è decisamente aumentata, a partire da Libia e Algeria fin nelle profondità della fascia saheliana.
Tali cambiamenti sono il più chiaro esempio di crisi della deterrenza americana. D’altronde, se ci si mette nei panni delle potenze rivali, si può ben comprendere che l’occasione per espandersi è da cogliere al volo.
Grande Medio Oriente
In tale contesto, il colpo decisivo è stato assestato dalla Russia con l’invasione dell’Ucraina.
Per quanto la fornitura di mezzi militari ed economici da parte americana non sia mancata, il messaggio arrivato agli avversari informa che gli Stati Uniti non intendono impegnarsi direttamente in una guerra che non ritengono esiziale.
Se gli Stati Uniti intendono disimpegnarsi dal Mondo (tranne che dalla Cina), è probabile che i rivali cercheranno di impegnarli ovunque così da accelerare il processo e scalzarli definitivamente.

LA POLVERIERA MEDIORIENTALE

La situazione è diventata ancor più critica in queste settimane a causa dell’attacco di Hamas contro Israele. Situazione che rischia di infiammare il Medio Oriente e che gli Stati Uniti temono più della crisi Ucraina.
Non si sa ancora quanto direttamente sia coinvolto l’Iran nell’attacco, ma è comunque indubbio il suo ruolo indiretto.
Quel che ora importa, però, è cosa accadrà a seguito della risposta israeliana, ed è qui che ritorna il dilemma americano: come evitare un allargamento del conflitto – che potrebbe coinvolgere l’Iran e rompere definitivamente le relazioni diplomatiche con i paesi arabi – senza rinunciare al comprensibile desiderio di risposta da parte di Israele e, soprattutto, lanciando comunque un forte segnale ai rivali, mostrandosi pronti a rispondere duramente a qualsiasi minaccia (alias, ristabilire la deterrenza)?
Non bisogna farsi travolgere dalla cronaca, ma tenere bene a mente che ci sono due piani della crisi in corso: quello specifico, relativo al rischio di allargamento del conflitto in Medio Oriente; quello generale, riguardante il riassetto dei rapporti di forza tra le potenze mondiali (USA, Cina in primis, a seguire Russia e Iran), del quale quello specifico è la rappresentazione attuale più cogente.
Il rischio ravvisato dagli Stati Uniti è che il primo possa compromettere un aspetto fondamentale del secondo. Il mantenimento di un certo equilibrio in Medio Oriente – tramite relazioni diplomatiche tra Israele, Turchia, Arabia Saudita, Egitto e paesi del Golfo – è condizione essenziale non solo per un maggiore disimpegno, ma anche per evitare che le tre direttrici rivali (Mosca, Teheran, Pechino) estendano la loro influenza in quello che è il punto di giuntura fra tre continenti (Europa, Asia, Africa) e che si affaccia sui corsi d’acqua più importanti al mondo (quelli che collegano il Mediterraneo all’Indopacifico e che controllano gli stretti di Hormuz e Bab el-Mandeb).
A parte Siria, Libano e Iraq – che già da tempo sono nell’orbita dei paesi del triangolo asiatico – Arabia Saudita e paesi del Golfo negli ultimi anni hanno cercato di mantenere una posizione terza rispetto ai due blocchi che si stanno formando. Stringono rapporti con Mosca e Pechino, tentano riappacificazioni con Teheran, ma rimangono agganciati agli Stati Uniti, dai quali dipendono soprattutto per la loro sicurezza. 
Triangolo Asiatico: Cina, Russia, Iran
In questo quadro, l’attacco di Hamas rischia non solo di compromettere definitivamente gli accordi di Abramo, ma se la risposta di Israele infiammerà oltremodo le popolazioni arabe (già oggi in fermento), c’è anche la (remota) possibilità che le stesse relazioni con gli Stati Uniti vengano messe a dura prova. D’altronde già negli ultimi anni le relazioni si sono inasprite, a partire dalla decisione americana di ritirare dal Medio Oriente i sistemi di difesa aerea (posti a difesa dei paesi arabi) poiché oramai sicuri di aver creato una solida cintura di sicurezza che contenesse l’Iran.
Nel frattempo la Cina non è rimasta certo a guardare. Il conflitto in corso ha offerto a Pechino una nuova occasione per attaccare gli Stati Uniti e mostrarsi solidale con i suoi avversari.
Inizialmente ha mantenuto un basso profilo nelle dichiarazioni, ma mostrarsi “tiepidi” nella condanna ci dice di più di quanto parrebbe.
Dopo una settimana, infatti, il capo della diplomazia cinese Wang Yi ha dichiarato che la Cina “sostiene i Paesi islamici nel rafforzare l’unità e il coordinamento sulla questione palestinese” al fine di parlare “con una sola voce.
Visto che le uniche cose che accomunano i paesi arabi sono (in parte) lingua e religione (per il resto, se potessero, si distruggerebbero a vicenda), “l’unione” che auspica Wang Yi fa pensare piuttosto a quella di vedere nella Cina il nuovo principale partner del mondo arabo. Progetto che allo stato attuale è pura utopia, ma che la Cina inizia comunque a coltivare, cosciente del fatto che le crisi sono un incredibile acceleratore nelle relazioni diplomatiche, capaci in poco tempo di creare e distruggere. 

DILEMMA AMERICANO: COME RISTABILIRE LA DETERRENZA SENZA FARSI TRASCINARE IN UN CONFLITTO

Il parziale equilibrio che gli Stati Uniti credevano di poter mantenere in Medio Oriente è saltato. Fanno pressione su Israele affinché non compia azioni che possano allargare il conflitto. Ma qual è l’obiettivo? Mantenere ciò che oramai si è sgretolato, o semplicemente (e comprensibilmente, sia chiaro) scongiurare la possibilità di un conflitto che non si sa dove potrebbe condurre?
Gli Stati Uniti devono avere necessariamente un progetto per il Medio Oriente che si adatti alle nuove condizioni, perché avere come unico obiettivo quello di evitare una guerra non è una strategia e non ristabilisce la deterrenza. Al contrario, lascia campo libero ai rivali portando ad un gioco al rialzo. Avrebbe l’effetto di ritardare un conflitto, non di scongiurarlo.
Allo stato attuale, anche se riuscissero a placare la reazione di Israele, è difficile immaginare che le relazioni con i principali attori della regione ritornino come prima (tra questi anche la Turchia, alleato sui generis, da tempo in equilibrio tra occidente e mondo arabo che nella crisi israeliana si è mostrato dalla parte di Hamas e della Palestina).
Da tenere in considerazione anche che i paesi arabi (sauditi in testa) non hanno la possibilità di garantire da soli la propria sicurezza. Per trent’anni l’unica alternativa sono stati gli americani, oggi però emergono alternative.
Anche se le relazioni dirette con gli Stati Uniti non saranno intaccate, se i rapporti con Israele si inaspriranno, come è pensabile che gli americani possano ancora fornire mezzi di difesa a paesi che potrebbero usarli un domani contro Israele?
La possibilità che questi si rivolgano altrove (Russia o Cina) non è poi così remota, e questo potrebbe dare inizio ad un progressivo allontanamento del mondo arabo dagli Stati Uniti.
Se le relazioni si deterioreranno e la leva diplomatica non avrà più forza, la modalità per ristabilirle sarà la stessa con la quale si dovrà cercare di scongiurare una guerra: la minaccia di ritorsioni militari che ristabilisca la deterrenza.
In un’intervista rilasciata a Foreign Affairs nel maggio di quest’anno, il generale americano Mark Milley (ex capo dello stato maggiore congiunto) dichiarava: “Dobbiamo ricordare ancora una volta i metodi che hanno funzionato in passato: deterrenza, eserciti potenti, eserciti capaci, eserciti forti, trasmettere la propria volontà all’avversario. Queste sono cose che hanno funzionato in passato e probabilmente funzioneranno in futuro, indipendentemente dal sistema d’arma e dalla modernizzazione“.
Agli Stati Uniti non manca di certo la forza dell’esercito. Ciò che manca piuttosto, è l’intenzione a metterlo in campo e soprattutto la minaccia di farlo. Gli avversari hanno compreso che c’è solo un teatro dove gli Stati Uniti sarebbero disposti ad attaccare in forze: Taiwan. Lo sanno perché gli americani non hanno nascosto il proprio intento. Viceversa, riguardo la crisi ucraina hanno esplicitamente affermato che non hanno nessuna intenzione di entrare direttamente nel conflitto e, per quanto concerne quella israeliana, pur mostrandosi disposti ad difendere l’alleato, il giorno dopo l’attacco di Hamas si sono subito premurati di dichiarare che non c’erano prove del diretto coinvolgimento dell’Iran nell’attacco, e nelle settimane successive hanno continuato pubblicamente a far pressioni su Israele per evitare un allargamento del conflitto.
È chiaro che il desiderio di non impantanarsi in una guerra in Medio Oriente è una scelta strategicamente corretta, sia perché si rischierebbe un drammatico effetto domino, sia perché sottrarrebbe enormi risorse da altri teatri, come più volte ripetuto. Tuttavia tale scelta comporterebbe anche il mostrarsi nuovamente disposti a fare un passo indietro pur di evitare un conflitto, ovvero indietreggiare di fronte ad un avversario più debole che è passato per primo all’attacco.
Se da un lato si scongiurerebbe il possibile effetto domino della guerra, dall’altro si rischierebbe l’effetto domino delle crisi in giro per il mondo, temporaneamente congelate a causa del timore di un intervento esterno. Si lascerebbe così campo libero a potenze rivali di alimentare conflitti lì dove hanno maggiori interessi a farlo.
Che si tenti di evitare il conflitto, o si decida di rischiarlo – pur di affermare la propria forza e ristabilire la deterrenza – gli Stati Uniti vanno incontro ad un terribile scenario che sicuramente cambierà gli equilibri internazionali, non solo del Medio Oriente.
In un simile contesto, la soluzione al dilemma rimane dunque una pura scommessa.

L'ARMA IN PIÙ SONO LE ALLEANZE

Se la debolezza degli Stati Uniti è l’impossibilità di impegnarsi ovunque, un possibile rimedio è giocare la carta delle alleanze. Coinvolgere maggiormente quelle attuali e cercare di ristabilire quelle in crisi.
Non a caso Antony Blinken in un discorso tenuto a settembre di quest’anno ha affermato che la più grande risorsa strategica degli Stati Uniti risiede proprio “nelle alleanze e nei partenariati”.
Solo coinvolgendo gli alleati nella partita globale potranno preservare il sistema internazionale che hanno creato.
A differenza delle capacità industriali, tecnologiche, militari ed economiche, nelle quali i rivali si stanno facendo strada accorciando sempre più il divario con la potenza egemone (USA), nel campo diplomatico gli Stati Uniti godono ancora di un enorme vantaggio. È quindi una priorità assoluta per gli americani mantenere ampio tale divario.
Negli ultimi trent’anni, però, gli alleati si sono fin troppo abituati all’idea che il rapporto con gli Stati Uniti fosse fondato su uno scambio, sintetizzabile così: voi (USA) garantite la nostra sicurezza (anche economica), noi vi forniamo appoggio diplomatico (contro i rivali degli USA) e logistico (basi navali e terrestri che permettano di supervisionare molteplici teatri e importanti “choke point”).
Una relazione che poteva bastare in tempo di pace, quando gli avversari degli Stati Uniti non erano in grado di essere una vera minaccia.
Oggi questo non può bastare. Le alleanze saranno veramente una risorsa strategica per gli Stati Uniti se questi riusciranno a coinvolgere direttamente gli alleati nelle sfide globali.
Le iniziative come AUKUS e QUAD rappresentano questo tentativo in quello che è il teatro più importante per gli americani: una cintura di sicurezza e contenimento della Repubblica Popolare Cinese nell’Indopacifico.
Per quanto non siano ancora riusciti a formalizzare una vera e propria alleanza (come la NATO), sanno che possono contare comunque sull’impegno diretto di alcuni importanti alleati: Giappone in primis, ma anche Australia, Filippine e India.
Ma il vero ventre molle delle alleanze americane risiede paradossalmente all’interno della NATO: l’Europa. Continente che da anni vive al di fuori della Storia e che stenta ancora a rientrarvi.
La crisi Ucraina ha messo ancor più in luce le divisioni interne al blocco e l’impreparazione dell’industria militare; quella israeliana ha mostrato la loro irrilevanza nelle questioni internazionali.
Da decenni a digiuno di strategia, i paesi europei non sanno più come pensarla e in che termini declinarla. Più che una confederazione di Stati, è un forum di chiese delle scomuniche e dell’indice, intente a predicare piuttosto che ad agire. Convinte che maneggiando parole e sanzioni si possa cambiare il mondo.
Rianimare il Vecchio Continente (vecchio di nome e di fatto) è la vera sfida degli Stati Uniti. 
La sua importanza trascende la consapevolezza dei suoi abitanti. È giunto il momento di fargliela riscoprire, così come le responsabilità che ciò comporta.
I paesi europei, infatti, sono necessari nel contenimento russo nell’est Europa, nel controllo del Mediterraneo Allargato (da Gibilterra a Bab el-Mandeb) e potrebbero essere di aiuto nel teatro mediorientale e nord africano. Permetterebbero agli Stati Uniti di non impegnarsi ovunque vi sia una crisi, rispondendo così alla tattica avversaria che punta proprio a questo.
Ad oggi tutto ciò appare semplice utopia, ma gli Stati Uniti non possono rinunciare a tentare.
La crisi ucraina e quella israeliana rappresentano solo l’inizio, probabilmente.
La partita si sta allargando sempre più e non ammette spettatori.